Se escludiamo il bel libro dell’ex moglie Irene Thornton, la figura di Bon Scott è rimasta per decenni avvolta nel mistero e sostanzialmente fissa al racconto spesso parziale, quando non proprio alterato arrivato a noi tramite la striminzita storia orale tramandataci dagli AC/DC. Il fatto che la band, a pochi mesi dalla scomparsa del cantante abbia dato alle stampe uno degli album più venduti della storia non ha aiutato. Può far sorridere quelli di una certa età, ma molti di quelli che hanno scoperto gli AC/DC grazie a certe radio rock non hanno quasi idea di chi fosse Scott e nemmeno hanno la curiosità di scoprirlo. Spesso ignorano quasi completamente la discografia precedente al 1980. Se volete averne una prova, fate caso agli sguardi dei più quando dal vivo parte un pezzo come Riff Raff.
Quindi chi era Bon Scott quando scendeva dal palco? Un beone sempliciotto che amava fare festa? L’animale a cui bastava cantare e sballarsi per vivere bene? Aveva sogni, desideri, frustrazioni? Nel libro Bon: The Last Highway (uscito nel 2017 e tradotto da poco in italiano) Jesse Fink, noto per aver pubblicato il controverso La dinastia Young, rovescia la prospettiva su Scott: non più solo icona del rock dissipata, ma persona vera, complessa, spesso scomoda. L’immagine pubblica di Bon, forgiata su eccessi e leggende, viene decostruita in una geometria sentimentale fatta di incertezze, bisogno di riconoscimento, voglia di famiglia, dolore e una nostalgia cupa e grondante autenticità. Restituendolo dunque alla sua umanità più profonda.
Veniamo così a conoscere in modo minuzioso gli spostamenti, le scelte e le ambizioni: nato in Scozia e cresciuto in Australia perennemente diviso tra la nostalgia delle radici e la voglia di scappare dal passato. La sua biografia è un viaggio continuo tra gli Stati Uniti (che sogna di raggiungere come terra promessa), Londra e la provincia australiana, inseguendo un sogno di libertà che però si trasforma quasi sempre in profonda solitudine. Le sue relazioni familiari sono un continuo alternarsi tra casa e fuga: una dicotomia che, di fatto, ne segna l’esistenza. Bon non perde mai il legame con la madre Isabelle («Le scrivo sempre, mi manca», annota nei suoi appunti ) e con il fratello Derek, ma allo stesso tempo non trova mai un posto che senta davvero suo, qualcuno di cui fidarsi davvero. Per questo, forse, continua a cambiare partner, ma allo stesso tempo desidera fortemente diventare padre mentre la sua vita si fa più fragile e i rapporti con gli AC/DC più difficili. Il suo sogno rimarrà tristemente irrealizzato.
Non a caso Fink dedica molte pagine agli amori di Bon e non lo fa con intento gossipparo o morboso, ma per raccontarne la fragilità e, in fondo, anche la purezza d’animo: la lunga storia con Thornton (che testimonia che «Bon sapeva essere protettivo e affettuoso, ma spesso era distratto, irrequieto»), la relazione poetica e a tratti spietata con Silver Smith (coinvolta anche negli ultimi tragici giorni), il legame altalenante e quasi segreto con Holly X, che racconta che «negli ultimi due anni lo vedevo voler cambiare, voleva impegnarsi seriamente. Parlava di una casa, di giornate semplici, della voglia di mettere finalmente ordine». Anche Pattee Bishop, fondamentale nel racconto di Fink, ricorda Bon come capace di «una dolcezza inattesa… c’era uno strano pudore nel frequentare le donne, quasi fosse terrorizzato dalla solitudine e sempre alla ricerca di qualcosa che non trovava mai».
Non proprio l’immagine del macho ammiccante e facile al doppio senso che pensavamo di conoscere. Lo Scott raccontato nel libro è malinconico, spesso incapace di gestire i sentimenti. Quando soffre lo fa in silenzio. Nei diari e nelle lettere si coglie un «cuore di panna dietro la faccia da duro», uno che mostrava il lato più dolce solo a pochi, spesso in tournée o di notte, quando la stanchezza aveva il sopravvento sulla maschera da rocker.

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images
Una delle rivelazioni più significative di The Last Highway riguarda il rapporto tra Bon e gli altri AC/DC. L’immagine di un gruppo coeso e cameratesco viene demolita: le testimonianze di roadie e amici ricostruiscono minuziosamente il clima effettivo tra i musicisti, da cui traspare che Bon viveva tutt’altro che in simbiosi con gli altri AC/DC. Gli Young si preoccupano per lo stile di vita del cantante, a volte lo allontanano, organizzano riunioni per parlare del problema alcol, lo considerano troppo fuori controllo per una band che sta cercando di fare il salto definitivo. Scopriamo così che, almeno da un certo punto in avanti, Bon smette di vedere i compagni al di fuori degli impegni lavorativi, preferendo altre compagnie o la solitudine completa, tra scrittura e sogni ricorrenti di cambiare ancora una volta strada.
Le cose finiscono per deragliare nel corso degli ultimi tour, dove i momenti di tensione si amplificano, insieme alle esagerazioni con le sostanze. Scott si sente escluso, le crisi sono sempre maggiori e portano a liti, episodi di malessere e blackout si moltiplicano in modo esponenziale tra il 1978 e la fine del 1979. Scott sogna dischi solisti, altri progetti, avanza l’idea di dedicarsi al southern rock, ma si sente incastrato in un ruolo che lo sta ormai consumando. Mark Evans, ex bassista della band, conferma che «gli AC/DC erano una famiglia, ma Bon a volte era un figlio adottivo: non sempre si sentiva davvero parte della stessa casa». Gli ex roadie Joe Fury e Paul Chapman raccontano delle notti in van col cantante muto e distante che guarda fisso fuori dal finestrino col suo quaderno di poesie.
Uno dei nuclei più nuovi e dolorosi del libro è il racconto crudo delle dipendenze e della notte della morte di un uomo costantemente in lotta con alcol e droghe e con frequentazioni pericolosissime. Scott oscillava tra il rifiuto totale delle droghe e la tentazione sfrenata, e di quella notte ancora oggi non si sa tutto per via delle omissioni da parte di chi c’era. La morte è stata causata probabilmente da un mix di sostanze su cui è inutile indagare con maniacalità e anche la ricerca quasi ossessiviva di Fink porta a una sola certezza: Bon è morto da solo come da solo aveva passato gran parte della vita.
Più utile ed edificante, oltre che sorprendente, è la fame di espressione poetica di Bon Scott che esce da questo racconto. Oltre i testi delle canzoni, Fink trova lettere, biglietti, versi sparsi tratti da quel “libro delle parole” che Bon portava ovunque con sé e su cui scriveva anche nei momenti di disperazione, lasciando note e idee che avrebbe voluto utilizzare nei testi. Idee secondo molti, compreso lo stesso Fink, poi germogliate in Back in Black. Un’asserzione impossibile da dimostrare e che offre nuovi spunti agli appassionati di teorie del complotto, ma che di fatto nulla di nuovo ci racconta sulla personalità di Scott.
Una cosa tuttavia è lampante: il Bon Scott che emerge dal libro è uno scrittore mancato, un poeta ossessionato dalla voglia di lasciare una traccia, ma spesso incapace di concludere ciò che iniziava a scrivere. Una descrizione che cambia per sempre la percezione della figura rock classica che ci è stata tramandata: non più (o non solo) amante degli eccessi, ma persona tra le persone, capace di stringere legami, sbagliare, confidarsi, cercare sempre un nuovo senso al proprio cammino. E in fondo il Bon Scott che resta, dopo il viaggio di Fink tra città reali e città emotive, tra amici veri e storie raccontate, è un uomo che ama e sbaglia, che si sente escluso anche quando è sotto i riflettori, che sogna un luogo da chiamare casa e che forse, proprio per questo, continua ad essere diverso da tutti gli altri.














