Bikini Kill: oltre al femminismo punk c'è di più | Rolling Stone Italia
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Bikini Kill: oltre al femminismo punk c’è di più

Le storiche riot grrrl guidate da Kathleen Hanna torneranno con un mini tour di concerti in America. Ma noi ci ricordiamo ancora di quando le abbiamo viste a Roma, al Forte Prenestino, nel 1996

Bikini Kill: oltre al femminismo punk c’è di più

La prima volta che ho visto Kathleen Hanna dal vivo non sapevo se vergognarmi più di me stesso o per lei. Durante il concerto delle Bikini Kill organizzato nel 1996 da Lucia e il collettivo femminista del Forte Prenestino di Roma, aveva su soltanto una shirt e una minuscola gonna di colore bordeau. Tanto piccola che, più delle mutandine, le si vedevano direttamente le micro-pustole di dove si era depilata la topa.

Sudatissima, coi capelli corvini trattenuti da una bandana. Quello che era un palese richiamo al manifesto “We Can Do It” di J. Howard Miller del 1943 stranamente spiccava sul resto del look e iniziò a mietere vittime tra le fanciulle presenti: un’orda di wannabe dopate dal riottismo fashion delle Hole di Courtney Love si sarebbero scoperte fiere combattenti per il potere femminile a suon di bandane e calci nei testicoli a chi si avvicinava sottopalco. Leggenda vuole che prima di iniziare abbia bevuto un tè sfogliando Memoria, un’agenda autoprodotta nata tra le pareti del Forte nel tentativo di recuperare, attraverso immagini, pensieri e spunti di riflessione, la memoria storica della lotta delle donne e, soprattutto, nella lotta al sessismo. Pare che non commentò praticamente nulla ma l’espressione del suo volto trasmetteva questo: “Non capisco nulla di quello che mi state mostrando ma sono fiera che stiate risvegliando le vostre coscienze e i vostri corpi addormentati”. Femminismo empatico.

Tutto il retaggio del tempo passato a scrivere e impaginare giornalini come Revolution Girl Style Now o Girl Germs (ancora prima di quel Bikini Kill, dal quale la band prese il nome) già sui banchi del Evergreen State College di Washington dieci anni prima, riaffiorava nel suo sguardo: il compiaciuto stupore di ritrovarsi dall’altro capo del mondo tra altre ragazze con la sua stessa testa e i suoi stessi ideali.

Il concerto fu una bolgia infernale: ogni brano che iniziava un ragazzo a caso si prendeva un calcio soltanto per aver osato avvicinarsi a bordo palco. Me compreso. Si creò così un tacito accordo per cui le postazioni migliori fossero a esclusivo appannaggio del pubblico femminile mentre i maschi dovevano accontentarsi di un posto nelle retrovie. Un sano esercizio di cavalleria imposto a suon di pedate e incitazioni dal palco, estraneo a qualsiasi altro concerto a cui avessi assistito fino ad allora.

Come ebbe modo di spiegare Kathleen in numerose occasioni, non era per astio o sessismo, ma solo una reazione di protezione maturata nel tempo, di riappropriazione di uno spazio da sempre destinato ai maschi soltanto: più robusti, aggressivi e fisicamente adatti. Ero confuso e turbato. Arrivando quasi a vergognarmi per i miei ascolti al femminile che, nel 1996, stavano virando verso i Mazzy Star, i Belle & Sebastian ma avevano come massimale femminista la placida e introspettiva Tori Amos. Tutte quelle giornate a divorare ghirigori pianistici di Under The Pink, che inutile perdita di tempo.

Certo, sarebbe potuto andare peggio: avrei potuto perdere la testa come tutti i miei coetanei per Alanis Morisette ma non è che stessi messo tanto meglio. Avrei potuto leggere lo SCUM Manifesto di Valerie Solanas invece, e farmi un’idea di perché cercò di accoppare Andy Warhol nel 1968, capire le lotte di milioni di lavoratrici in tutto il mondo. Invece ero solo una mezza sega che canticchiava Cornflake Girl animandosi di insensato fervore antagonista. Mi misi in testa che forse avrei dovuto affittare la videocassetta di Tank Girl e iniziare a leggere Viginia Woolf, andare a una mostra di Frida Kahlo, magari smetterla di sbirciare la biancheria intima delle ragazze. Però, come ovvia conseguenza di quanto mi si stava palesando, decisi di iniziare dalla musica. Dalla nascita del movimento Riot Grrrl (scritto così perché si sentisse più la rabbia) nell’estate del 1991. Movimento che fu in primis letterario, teatrale e performativo, per poi diventare musicale grazie a una semplice intuizione dell’allora ventenne studentessa universitaria e spogliarellista per necessità Kathleen Hanna: ai ragazzi piace molto di più andare ai concerti.

La cosa che colpisce tutt’oggi di più delle Bikini Kill è la loro compattezza ideologica, musicale e umana. L’impasto di punk, indie, svisate alternative e il cantato colmo d’irredenta indole dissacrante e indisponente oltre che, ovviamente, attivista. Il loro sound era arrabbiato e implacabile, ma anche storto, energetico e ottimista. Mentre i testi parlavano di quello che le ragazze volevano e facevano o meno, anche a dispetto delle aspettative della società. «Non vogliamo essere perfette – spiegava la stessa Hanna – Vogliamo essere all’opposto di tutte le band che eseguono il loro disco a menadito e non parlano mai».

Ammirazione piena, nulla da aggiungere. “Daddy comes into her room at night / He’s got more than talking on his mind / My sister pulls the covers down / She reaches over, flicks on the light / She says to him / Suck my left one”. Messo tra i primi pezzi di una scaletta sempre mutevole di notte in notte, il secondo verso di Suck My Left One, del quale già da adolescente non necessitai di una traduzione in italiano, bastò a farmi intuire perché le Bikini Kill fossero un gruppo controverso. Nonostante sia tra le tracce meno note delle americane rispetto, per dire, a una Rebel Girl, è curioso notare che proprio questo brano sia stato incluso in ben tre delle uscite del quartetto di Olympia. Compreso il primo mini-Lp (Bikini Kill, 1992) prodotto da Ian MacKay dei Fugazi, giunto sul mercato con ritardo rispetto a una carriera già avviata due anni prima.

Il fatto è curioso ma comprensibile, alla luce dell’eccezionale forza di impatto non solo del testo che, ci troviamo tutti d’accordo, è politicamente scorrettissimo ma efficace sul piano comunicativo e non solo della provocazione (“Sister where did we go wrong? / Tell me what the fuck we’re doing here / Why are all the boys acting strange? / We’ve got to show them we’re worse than queer” è quasi una summa e un Manifesto del pensiero Bikini Kill) ma anche di una struttura musicale a grana grossa dove la ritmica battente di Kathi Wilcox e di Tobi Vail, l’efficace parsimonia garage della chitarra di Billy Karren, l’unico maschietto della formazione, e l’umore corrotto e vizioso che avvolge la voce della futura moglie di Ad-Rock dei Beastie Boys (a tratti sembra quasi di sentire un redivivo Darby Crash dei Germs) danno vita a un autentico inno per tutta la scena futura.

L’attesa per il ritorno dal vivo annunciato in questi giorni dalle Bikini Kill (pare, almeno per adesso, senza Billy) è quindi più che giustificata perché poche altre formazioni nella storia del rock possono essere dette cruciali come loro: rappresentarono la perfetta antitesi all’immagine e all’immaginario “cazzodurista” di quella West Coast piena di tatuaggi e serie di addominali da venti dei Black Flag. Quel lato minoritario (“Feminist, Dyke, whore, Pretty, pretty Alien” da Alien She), tragico (“Your alphabet is spelled with my blood” da Blood One) ed eccessivo (“White boy don’t laugh don’t cry/ just die!” da White Boy), di un rock fermamente femminista che combatteva in maniera radicale le convenzioni e le abitudini machiste assai in voga in quegli anni (“I will resist with every inch and every breath” da Resist Psychic Death). Con le Slits nel cuore e Poly Styrene degli X-Ray Spex in testa.

In soli sette anni, dal 1990 al 1997, le Bikini Kill realizzarono alcuni dei dischi ancora oggi considerati come basilari per lo sviluppo del rock femminile (e, per non farsi mancare proprio nulla, imbeccarono pure il titolo della canzone-simbolo dei Nirvana: Smells Like Teen Spirit). Così, anche se Wikipedia alla voce “Riot Grrrl” parla ingiustamente di una popolarità “Molto ridotta, con pochi seguaci provenienti dalla cultura LGBT e dai seguaci di particolari costumi sessuali o poche femministe trasgressive alla ricerca di differenziazione culturale” e l’umorismo fallocentrico è già passato all’azione sui social (da “Lesbian Party” a “Nessuno le ha avvertite che Hilary Clinton ha perso le elezioni?” realmente letti in giro), la lezione che ne esce fuori è quella della resistenza di persone che ancora preferiscono imboccare la strada difficile, quella dell’affermazione attraverso una manciata di canzoni poco più che auto-prodotte, una ricerca di una pura validità artistica nella propria musica, il più possibile senza compromessi, e una miriade di altri buoni motivi che fanno sì che oggi, dalle Sleater Kinney alle Savages, dai Distillers ai Gossip, passando dalle Pussy Riot, le Skating Polly, le Smudjas, i Gomma e pure i Ros di X-Factor, siano veramente tante le band che (consapevolmente o meno) devono dire grazie ai Bikini Kill per aver ancora voglia di chiudere il pugno. In alternativa, sembra che Tori Amos continui a svirgolettare sul suo piano mini-suite su un’America liberal e possibilista che francamente oramai vede soltanto lei.

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