Il 19 luglio 1980 è un sabato, ma per i “ragazzi del cortile” la giornata inizia alle prime luci dell’alba per le operazioni di allestimento del palco di San Siro. La giornata inizia presto anche per Gianni Minà e per i suoi cineoperatori, che riprendono le fasi di montaggio e di sistemazione degli strumenti, e alcuni momenti del soundcheck. Nelle immagini che verranno montate nel documentario, si vedranno i pullman del service svizzero che approdano allo stadio, Giorgio Darmanin che assembla la batteria di Bandini e sistema accuratamente il tamburello a pedale di Edoardo, Massimo Tassi che carica e scarica casse piene di strumenti, e, in generale, almeno una cinquantina di persone, tra “ragazzi del cortile” e tecnici assoldati per l’occasione, che lavorano alacremente per l’allestimento di uno degli spettacoli più importanti dell’anno. La scena, quindi, si sposta al pomeriggio, nel momento in cui il pubblico inizia ad affluire nell’arena mentre i ragazzi di Edoardo si prendono una meritata pausa con la consueta partitella di calcio, stavolta disputata nientemeno che a San Siro. Poi Minà li intervista uno per uno: Franco De Lucia, Giorgio Darmanin, Aldo Foglia e Sandro Frascogna. Giovani e rampanti, oberati dalle responsabilità ma felici, quel giorno, di trovarsi lì a San Siro nel momento di massimo trionfo del loro amico nonché datore di lavoro.
Fa altre interviste a spron battuto, Minà: ai ragazzi che con i loro zaini si stanno sistemando sotto al palco, ai venditori ambulanti e perfino ai carabinieri che sorvegliano l’area antistante lo stadio, che vorrebbero gustarsi il concerto di Edoardo ma non possono per ragioni di servizio. Poi su Milano scende la sera.
“Hai paura?”, gli chiede Minà pochi istanti prima di entrare in scena. Edoardo ha appena un istante di smarrimento, ma poi, sempre continuando ad avanzare, guarda il giornalista negli occhi, e sorridendo nervosamente risponde: “Paura? Ho paura che non si divertano. Perché se non si divertono loro, non mi diverto neanch’io”. Sorrisi di complicità tra intervistatore e intervistato, poi si continua la lunga marcia verso la fossa dei leoni.
Gianni Minà: «È una domanda che mi è venuto spontaneo fargli, prima del concerto più grande della sua carriera di fronte a così tanta gente. Ma non era una domanda che facevo spesso, anche perché io ero abituato a intervistare i pugili, e non è che a un pugile prima di un match gli puoi chiedere se ha paura.
Neanche Edoardo, come Muhammad Ali (o come Rocky) può aver paura. Dopo sette anni spesi a girare in lungo e in largo la Penisola per suonare di fronte a spettatori talora scettici e a volte ostili, non può certo adesso temere una folla, pur sconfinata, che ha pagato un biglietto per vedere solo lui e non vede l’ora di abbracciarlo. Ma sente comunque la pressione e probabilmente prova quell’inspiegabile sensazione che si avverte quando sta per verificarsi un evento chiave della propria vita, uno di quegli avvenimenti dopo i quali nulla sarà più come prima».
Edoardo fa di corsa, con la chitarra a tracolla, quei metri che lo separano dal palco, accompagnato da Sandro Frascogna e dalla troupe di Minà che a fatica riesce a stargli dietro. Oltrepassa la zona degli spogliatoi ed esce all’aria aperta, sul prato, come i Beatles allo Shea Stadium, con la folla che già scandisce ritmicamente il suo nome. Sale le scalette e si presenta al centro del palco, applaudendo il pubblico come la gente applaude lui invocandolo: “E-do-ar-do! E-do-ar-do!”. E per una trentina di secondi si gusta il momento. Ci sono tra le 70mila e le 80mila persone di fronte a lui, pronte a pendere dalle sue labbra e dalle vibrazioni della sua chitarra, della sua armonica, del suo kazoo. Ma poi ci sono gli amici al suo fianco, i ragazzi del cortile che lo hanno accompagnato durante gli anni della gavetta. C’è Sandro Colombini, l’amico produttore con cui ha diviso dolori, fatiche e successi; sul piano personale i rapporti non sono più quelli di un tempo, ma Sandro, almeno dal punto di vista professionale, è ancora al suo fianco, e ora non si perderebbe per nulla al mondo il momento di gloria del suo pupillo.
Chissà cosa passa nella mente di Edoardo in quei pochi istanti in cui risponde ai battimani della folla. Se ripensa alla gavetta a Milano, alle suonate per strada a Londra, agli incoraggiamenti del Commendator Burlotti, alle speranze e alle delusioni, a Lucio Battisti… Battisti che è e resterà il Numero Uno, ma così in alto, a esibirsi davanti a 80mila persone, non c’è mai arrivato. Forse la memoria in quei momenti torna a Bagnoli, ai sacrifici dei genitori e al Trio Bennato. A Eugenio, che ha appena realizzato il disco forse più bello della sua carriera e a Giorgio che è appena stato a Sanremo e che sembra aver trovato la sua strada d’artista. Certamente Edoardo ripensa al CRAL dell’Italsider e a un lontanissimo episodio di oltre vent’anni prima, perché mentre gli applausi iniziano a diminuire d’intensità, intona le prime strofe: “Mi ricordo che anni fa, di sfuggita dentro un bar, ho sentito un juke-box che suonava”. E via di chitarra, di tamburello a pedale e di kazoo. Il popolo di San Siro non aspetta altro per dar sfogo al suo entusiasmo.
Ellade Bandini: «San Siro è San Siro. C’era un’emozione incredibile. Quando è uscito lui, da solo, è stato proprio una cosa da pelle d’oca. Entrava prima lui, poi entravano un altro chitarrista e Cercola, poi entrava Enzo Avitabile che faceva il pezzo della “festa”… Poi entravano tutti. Alla fine dice: “E adesso vi presento il resto della ciurma”. E presentava me e Mark Harris e il coro. Perché eravamo gli ultimi a entrare. E via ad andare… Capitan Uncino subito… Poi dopo non mi ricordo più niente…».
Mark Harris: «Edoardo era abbastanza nervoso, perché erano talmente tanti… e poi, chiaramente, essendo il cantante, aveva piena responsabilità. Sei come un juke-box, la parte di piano è tipo Jerry Lee Lewis… L’aveva fatta sul disco Ernesto Vitolo. Allora: io quello stile lì lo so suonare, però dopo una certa velocità mi si addormenta il braccio. La velocità dell’originale non è esagerata, ma Edoardo quando era nervoso tendeva a farlo più veloce. E quella sera è partito a una velocità… Cioè, è partito troppo veloce. E lì mi sono immaginato quando dovevo entrare col piano che dopo quattro-cinque misure mi sarebbe venuta la tendinite… Comunque mi sono buttato davanti a tutta la gente in ginocchio davanti a lui pregandogli di rallentare il brano. M’ha guardato, ha detto: “Mark! Mark! Cosa fai?”. Ho detto: “Va’ piano! Piano! Rallenta!”. E l’ha rallentato leggermente».
Enzo Avitabile: «Le date del tour sono state tutte belle. Non c’è stata una data brutta. Sempre grande feeling. Non esiste una data migliore, perché sono, ogni giorno, un giorno importante. San Siro, sì, San Siro è il coronamento di un viaggio».
In mezzo alla folla, in questa sera di luglio, ci sono anche due soldati dell’esercito italiano in licenza premio: due vecchi amici che hanno accompagnato Edoardo per lunghi tratti del suo percorso: Lucio Bardi e Carlo Massarini.
Lucio Bardi: «Ero militare e ho preso il permesso. Ma ero triste: stavo vivendo su Marte, e vedevo altri al posto mio. Poi li ho conosciuti e siamo diventati amici, con Gasparini e Luciano Ninzatti. Però non era tanto questo: era il dispiacere di vedere un altro al posto tuo. E poi, la realizzazione di un sogno: quello del gruppo, finalmente. Noi l’avevamo immaginato: “Quanto sarebbe bello essere con un gruppo completo, basso e batteria”, e lo vedi realizzato a San Siro, nella tua città, quando tu sei al militare. Un po’ ti girano».
Così Carlo Massarini, trent’anni dopo il fatto, ha sintetizzato la sua esperienza da “marmittone rock” al concerto di San Siro nel suo libro fotografico Dear Mr. Fantasy: «Una serata da raccontare ai nipotini: ‘Mi ricordo che anni fa…’. Tutto il nuovo album a dare un nuovo significato alla parola ciurma, con quella banda di pirati all’assalto di un galeone che così grande non s’era visto mai. Una versione struggente dell’Isola che non c’è, quell’“A-A-Can-tautore” che Edo era solito suddividere tra destra e sinistra girando la testa che – in uno stadio – suonavano come due gol a segno per la squadra di casa. E, alla fine, quando non sapevi più se sarebbe finita o sarebbe durata tutta la notte, la versione a piena band di Sono solo canzonette, e – a raffica subito dopo, senza dare neanche il tempo agli applausi di salire lungo la parete del secondo anello – Canta appress’a nuie, uno ska indiavolato, ‘gira e vota, vot’eggira’. Scatenati, irresistibili, impossibili da frenare. Irripetibile. Di gran lunga il miglior concerto italiano degli anni ’70-’80».
A San Siro l’impianto audio regge bene, l’atmosfera è di festa e partecipazione e la superband è giunta a questo appuntamento finale ormai rodatissima.
Ellade Bandini: «Bennato per me è stato la più grande rockstar italiana. Nessuno è riuscito a superarlo. Perché vedere Edoardo Bennato su quel palco… Lui aveva tutti i movimenti calcolati. Ed era bellissimo da guardare»:
Dalle immagini girate dalla troupe di Gianni Minà, la qualità della performance di Bennato e la stretta interazione tra i musicisti risultano evidenti. Come è anche chiara l’evoluzione del “Bennato live”, che dal pazzaglione invasato del 1973, passando per il cantautore del 1976, è ormai diventato una rockstar a tutto tondo. Ha preso a prestito, è vero, suggestioni e movenze da Elvis, da Dylan, da Jagger, da Battisti, da Muddy Waters e tanti altri, ma alla fine ha condensato il tutto in uno stile ormai inconfondibile, che può essere solo definito “alla Bennato”.
E sono tanti, i momenti di questo storico concerto che restano impressi negli occhi e nelle orecchie dello spettatore. È da pelle d’oca Un giorno credi, che Edoardo esegue in solitario mentre la telecamera, alle sue spalle, inquadra San Siro illuminato da decine di migliaia di accendini. C’è elettricità nell’aria, e la si può quasi tastare con mano nell’unico momento del filmato in cui Bennato si rivolge al pubblico, un uomo solo di fronte a 80mila persone, e dice con una certa emozione nella voce: “Voi mi vedete su un palco, con l’adesione di tanta gente attorno, tra gli applausi, e pensate che io sia sempre in ogni circostanza sicuro di me. E invece vi assicuro, ve lo confesso, ci ho un sacco di paure, di perplessità e di dubbi come voi. Né più né meno. Da una parte però è anche giusto, perché finché avrò i vostri stessi dubbi, le vostre perplessità, probabilmente avrò anche le vostre stesse aspirazioni, le vostre stesse speranze. Questa è una canzone di speranza”. L’isola che non c’è.
Funziona alla grande È stata tua la colpa, con l’istrionico tambureggiare di Toni Cercola e le raffinate trame acustiche di Renato Gasparini in bella evidenza. Fantastiche, poi, Viva la guerra, in una versione di gran lunga più bella, e intensa, di quella sull’Lp, con la band a pieni giri e una Rossana Casale scatenata, e Allora, avete capito o no?, un rock-blues che su questo palco, stasera, non ha nulla da invidiare ai migliori Rolling Stones. E poi, ancora, Cantautore – ancora Edoardo in solitario – cantata in coro dal pubblico, Il rock di Capitan Uncino con tutta la ciurma a fare fuoco e fiamme, Così non va Veronica con Enzo Avitabile che fa esplodere le note del suo sassofono, e il reggae a tutto spiano di Canta appress’a nuie con il quale si scatena la festa, oltre che sul palco sul prato e sugli spalti: quasi un omaggio al rastaman giamaicano che quella musica l’ha diffusa nel mondo, Bob Marley, che proprio a San Siro ha suonato una ventina di giorni prima.
Quella del 19 luglio 1980 è la serata in cui “tutto torna”, per Edoardo e per coloro che fin dall’inizio hanno creduto in lui e nelle sue canzoni. Per quelli che a San Siro sono al suo fianco, ma anche per quanti, pur stasera assenti, hanno in un modo o nell’altro contribuito all’ascesa di Bennato e ora per i casi della vita sono altrove, in altre faccende affaccendati: Herbert Pagani, Vincenzo Micocci, Raffaele Cascone, Renato Marengo, Patrizio Trampetti, Toni Esposito, Gigi De Rienzo, Bob Fix, Roberto Ciotti, Eugenio e Giorgio, e poi ancora tutti gli altri.
È la sera della consacrazione, con il più prestigioso stadio italiano sold out mentre c’è un disco al n. 1 delle classifiche e un secondo in Top Ten. Tutti i sogni che Edoardo aveva quando, ancora adolescente, si trasferì armi e bagagli a Milano in cerca di successo, a questo punto sono divenuti realtà, e per colmo di soddisfazione, proprio nella sua città adottiva. Cosa si può volere di più, adesso? Edoardo ci penserà più in là. Ora però… “tutto è finito, si smonta il palco in fretta / perché anche l’ultimo degli addetti ai lavori / ha a casa qualcuno che l’aspetta / restano sparsi, disordinatamente / i vuoti a perdere mentali abbandonati dalla gente” (Feste di piazza).

Da Rinnegato. Vita e canzonette di Edoardo Bennato di Francesco Donadio (Il Castello).













