Achille Lauro, la recensione del documentario Ragazzi madre – L’Iliade | Rolling Stone Italia
Achilleide

Achille Lauro, l’uomo che ha partorito se stesso

Il cantante è regista e oggetto del documentario ‘Ragazzi madre – L’Iliade’, ultima tappa d’un lungo lavoro di autonarrazione. È la storia del passaggio dalle piazze di spaccio alle piazze di Radio Italia, preludio alla trasmutazione da popstar a personaggio mitologico

Achille Lauro, l’uomo che ha partorito se stesso

Achille Lauro

Foto: Mattia Guolo

Di tutti i campioni dell’autonarrazione che abbiamo nel pop italiano, Achille Lauro sembra il più determinato a raccontarsi senza freni. A tal punto che il racconto dei suoi talenti eccede il prodotto di quegli stessi talenti, la cornice è talmente elaborata da superare il quadro per interesse e ampiezza di significati. È come se le canzoni non bastassero e ci fosse il bisogno d’un supplemento di suggestione.

Artista e curatore di sé stesso al punto da ideare un museo virtuale in cui catalogare la propria opera, ora anche agiografo presso sé stesso, Lauro s’è autoritratto nel documentario di quattro anni fa No face 1 e nel libro Sono io Amleto, per non dire del volume edito da 24 Ore Cultura legato alla mostra al Mudec di Milano Achille Idol Is Present e di altre pubblicazioni.

I riferimenti letterari gli piacciono e il suo nuovo autoritratto s’intitola Ragazzi madre – L’Iliade, uscito a mezzanotte su Prime Video. Vorrebbe essere un poema metropolitano sull’ascesa del cantante da spacciatore a stella del nazionalpopolare, è un’agiografia piuttosto tradizionale in cui s’alternano immagini d’epoca e interviste di chi ci ha lavorato assieme, da Boss Doms a Frenetik & Orang3 e Gow Tribe, una storia senza ombre e con l’happy ending giacché directed by Achille Lauro.

Il titolo offre una chiave di lettura. Da una parte c’è il passato (Ragazzi madre), dall’altra il presente e il futuro (L’Iliade). Sono ragazzi madre poiché figli di sé stessi e della strada, lo spaccio, il pericolo, la brutta fine che incombe. Lauro era uno di quei ragazzi perduti in un impero di polvere. Ma a differenza di altri venuti dal rap, non è rimasto lì, la sua epica da strada è differente. Ne è fuori e non fa finta d’esserci ancora dentro. Non rinnega quegli anni e quei ragazzi. Li ritrae, anzi, con sguardo compassionevole e compartecipazione che parrebbe sincera.

Abbraccia idealmente i figli di nessuno in modo direi materno, ma volta le spalle al contesto «marcio, razzista, misogino, omofobo e descolarizzato» in cui sono nati. Questo gli va riconosciuto: con la sua musica, le sue esibizioni e il suo personaggio ha offerto un modello di mascolinità diverso e una chiave di lettura del mondo che s’è lasciato alle spalle, raccontandolo con toni ora poetici e ora secchi. Non si limita a raccontare l’esistente, fa intravedere un’alternativa.

E quindi come prima cosa lo si vede alla Comunità Kayros di Vimodrone con don Claudio Burgio, il cappellano del carcere minorile di Milano per il quale non esistono ragazzi cattivi, ma solo storie difficili. Come la sua. Il fratello maggiore Federico racconta di quando Lauro a 15 anni va vivere con lui e si trova in mezzo a «storie di droga, storie di reati». I genitori sono assenti, i pluripregiudicati fanno da padri, i ragazzi diventano l’uno madre dell’altro.

Ragazzi Madre - L'iliade | Trailer Ufficiale | Prime Video

Non sono storie nuove, ma a quanto pare è da qui che oggi bisogna passare. Un po’ come i concerti al Forum di Assago, i documentari sono diventati una tappa quasi obbligata nel percorso dei cantanti italiani. La macchina dello streaming ha bisogno di contenuti e loro sono felici di ritrarre le proprie virtù. Quando uscì No face 1 non era ancora così e ci voleva quindi un aggiornamento e anche un tipo di narrazione più razionale e di facile lettura rispetto a quella più poetica del 2019. Essendo diretto da Lauro, nel documentario non ci sono dubbi né macchie, che nel caso del divo Achille sarebbero la diminuita capacità di spiazzare il pubblico, l’erosione della forza espressiva, qualche canzone esile e pure la partecipazione allo spettacolino Una voce per San Marino, scorciatoia per entrare all’Eurovision Song Contest.

Si racconta invece in modo lineare, senza dire di inciampi e senza grande profondità psicologica, di come Lauro ha cercato caparbiamente un posto nel mondo e lo ha intravisto grazie al collettivo Quarto Blocco. Outsider anche nel giro del rap, frequenta mondi diversi e probabilmente non smetterà mai di farlo. Non si ferma a uno stile, a una sola suggestione. È l’altra cosa interessante che dice il documentario: in un mondo di gente che dichiara con orgoglio l’adesione a precisi codici comportamentali, a un mondo specifico, a una formula immutabile, Lauro è la somma inattesa di addendi improbabili.

Per esprimersi, usa fin dal principio un linguaggio frammentato ed ellittico, legato solo in parte agli stereotipi del rap. Il Lauro che viene dai «peggiori giardini» e quello che anni dopo finirà per frequentare i migliori salotti televisivi hanno la stessa visione: raccontare la realtà trasfigurandola. Col senno di poi, lui considera quelle sue prime canzoni «richieste d’aiuto di una persona che stava male e cercava di curarsi».

Foto: DCER Fotografia

Salvarsi è un verbo che ricorre nel mondo di Lauro. Lui s’è salvato trasformando la musica da hobby in impegno professionale. Arriva Thoiry e «il periodo in cui le cose stavano succedendo, il punto di svolta della nostra vita». Non gli basta neanche quello, si mette alle spalle l’urban, ha l’idea di isolarsi in una villa del Circeo per fare i dischi come le rock star degli anni ’60 e ’70. Vediamo nascere Rolls Royce che, come dice Frenetik, è la «metafora di quello che è stato Lauro dai 15 ai 25 anni».

«Questo è un inno, porco zio», dice Orang3 in un video d’epoca. Lauro la porta a Sanremo e, incredibilmente o forse no, si trova a suo agio sul palcoscenico mainstream per eccellenza. «Non avevo la minima idea in quale casino mi stessi infilando», dice. Eppure sta dove lo metti, dalle piazze di spaccio passa alle piazze di Radio Italia. Supera e anzi mette a reddito lo scandaletto costruito da Striscia la notizia, con Valerio Staffelli che insiste a dire che Rolls Royce parla di pasticche quando invece, replica Frenetik, era forse la prima volta che Lauro non ne parlava.

E davvero non ne parlava perché stava cambiando. Per vivere nel nuovo mondo in cui si trova Lauro muta «il modo di parlare, di vestire, di essere, di rapportarmi, di reagire, tutto». Comincia a pensare in grande ed è la trasformazione che gli fa guadagnare una popolarità vasta e gli aliena la simpatia di chi critica la sproporzione tra l’ambizione dei progetti e il valore delle canzoni. Questo naturalmente nel documentario non c’è essendo il ritratto d’un eroe pop senza macchia né paura che si è fatto da sé, che si è auto-partorito.

Comunque sia, Lauro diventa la versione enhanced di sé stesso. E quindi se la parte del titolo del documentario sui ragazzi madre si riferisce del passato, quella sul poema di Omero suggerisce la direzione che Lauro prende, quella del personaggio che costruisce un’epica di sé stesso. Diventa Achille e Omero allo stesso tempo, e qui anche Publio Papinio Stazio, quello dell’Achilleide. Diventa due cose allo stesso tempo: serissimo imprenditore della musica e cantante che mira a trasformarsi in opera d’arte su due gambe. L’hanno raccontato come un corruttore di giovani coscienze, ne esce come uno con la testa sulle spalle, un gran lavoratore, un pianificatore implacabile e perciò soprannominato Lauransia da Boss Doms.

In un documentario così non può che esserci il lieto fine: il secondo Sanremo con Me ne frego, la moda, le idee sempre più grandiose, «perché non c’è mai fine all’ambizione», e poi le performance del terzo Sanremo, i quadri, la trasformazione in idolo, Achille Idol, come da handle di Instagram. Ma ci sono anche le visite in scuole, ospedali e case famiglia, c’è il dovere di condividere sentendosi (definizione sua) un miracolato. Certe dichiarazioni fanno presagire per il 2024 non il ritorno al rap, come si sussurra, ma la definitiva trasmutazione da popstar a personaggio mitologico. È da capire se il pubblico lo seguirà o chiederà requie.

Altre notizie su:  Achille Lauro