A Ozzy Osbourne non potevamo chiedere di più | Rolling Stone Italia
Ciao Ozzy

A Ozzy Osbourne non potevamo chiedere di più

Un uomo ordinario che ha fatto cose straordinarie. L’infanzia travagliata, il rock cambiato coi Black Sabbath, la rinascita come solista, il magnetismo, gli eccessi, le tragedie. E una delle migliori uscite di scena di sempre

A Ozzy Osbourne non potevamo chiedere di più

Ozzy Osbourne

Foto: Eddie Sanderson/Getty Images

Ozzy Osbourne era un leviatano della classe operaia dalla mitologia talmente stratificata che si stenta a credere alla sua morte. La sua vita spericolata sembrava superata solo dall’aneddotica generata dalla stessa: anni di abusi di alcol e droghe, anni di successi sfavillanti e ascese velocissime alternate a tragedie personali, caos assoluto. John Osbourne si alzava ogni volta con un sorriso beffardo e quell’aria allampanata di chi non ha la minima idea del perché sia ancora vivo.

Di sicuro nessuno avrebbe scommesso su di lui nei primi anni ’60. Quarto di sette figli, proveniente dal quartiere popolare di Aston, a Birmingham, dislessico, senza particolari qualità, vittima di abusi sessuali nella sua scuola, dopo diversi tentativi di suicidio lascia l’istituto e si dedica a una disparata serie di lavori: operaio nei cantieri, idraulico, collaudatore di clacson, impiegato in un macello. A 17 anni viene sorpreso a rubare in un negozio di abbigliamento e il tribunale lo condanna al pagamento di una multa. Ozzy però i soldi non li ha (se no magari i vestiti li avrebbe comprati). Il padre sì, ma per dargli una lezione lo fa incarcerare per tre mesi nella prigione vittoriana di Winson Green.

Insomma la quotidianità di John Michael Osbourne sembra una puntata di Adolescence. Ci pensa la musica ad avere un ruolo salvifico, nella forma di She Loves You dei Beatles. Il suo amore per i Fab Four, che lo accompagnerà per tutta la vita, è la scintilla che innesca il desiderio di sottrarsi a una vita alla Oliver Twist e cercare una via di fuga attraverso il beat, il blues e la musica elettrica che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo. Assieme ad altri tre riluttanti compagni di viaggio, anche loro di Aston, dà vita ai Black Sabbath, band di cui è superfluo dire qualunque cosa se non ribadire ad libitum che hanno letteralmente inventato un genere senza il quale migliaia di band non sarebbero mai nemmeno lontanamente esistite.

In dieci anni i Sabbath mettono a ferro e fuoco il pianeta con dischi capolavoro (anche se spesso rivalutati a posteriori) ed esibizioni live che fanno sembrare quelle di illustri colleghi come Deep Purple e Who un concerto spettacolo di Carolina Benvenga. Ma Ozzy sin dall’inizio non ha vita facile all’interno del gruppo: Geezer Butler scrive i testi, Tony Iommi si dedica alla musica assieme a Bill Ward, lasciando a Ozzy un ruolo simile a quello di Liam negli Oasis, quello del frontman atipico scassacazzo di cui i tre farebbero a meno se non avesse un timbro vocale così riconoscibile e un suo particolare magnetismo.

Quando all’unanimità Ward, Butler e Iommi decidono di cacciarlo dal gruppo adducendo come motivazione il suo insaziabile appetito per alcol e sostanze, la risposta di Ozz è più o meno: guardate raga che mi faccio esattamente le stesse cose che vi fate voi eh, non mi sembra di essere peggio. Niente. I tre lo sbattono fuori e Ozzy, con l’assegno di buonuscita scucito per l’uso del nome del gruppo, fa quello che farebbe ogni persona dotata di responsabilità, visione ed equilibrio: si chiude nel suo appartamento e per tre mesi si dedica a scorpacciate di alcol e cocaina, ripetendosi che «la festa è finita, tra un po’ me ne torno a Birmingham a campare col sussidio».

Ma come una fenice, ancorché con le fattezze di un pollo allo spiedo, Ozzy risorge inaspettatamente dalle ceneri e inizia una carriera solista incredibile. I suoi primi due dischi, Blizzard of Ozz e Diary of a Madman, sono ormai ascritti al canone del metal moderno, pietre angolari della musica pesante grazie alla sua rinnovata immagine di Principe delle tenebre e a collaboratori di prim’ordine, in primis il mai abbastanza compianto virtuoso Randy Rhoads.

In perenne bilico tra follia, autolesionismo e stunt pubblicitario, fa il giro del mondo quando durante un concerto a Des Moines stacca con un morso la testa a un pipistrello arrivato sul palco e si sottopone successivamente a profilassi antirabbica all’ospedale locale. L’assurda morte di Rhoads, schiantatosi a soli 25 anni con un aereo da turismo durante una tappa del Diary of a Madman Tour pilotato dall’autista di Osbourne sotto effetto di stupefacenti è un colpo durissimo, ma Ozzy anche stavolta, sospinto dall’implacabile, amorevole, geniale moglie Sharon, continua. The Ultimate Sin consolida ulteriormente il suo status di superstar del metal, capace anche di abbracciare un pubblico sempre più ampio con delle superballatone alla Bon Jovi con No More Tears del 1991.

L’annuncio del suo ultimo giro di date prima della pensione, No More Tours (un gioco di parole con No More Tears) arriva poco dopo ma ormai il pubblico ha imparato che da Ozzy ci si può aspettare di tutto, infatti poco più di un anno dopo cambierà idea facendo uscire l’album Ozzmosis e rimettendosi sulla strada con il suo nuovo Retirement Sucks Tour. Gli Osbourne, un docureality sulla sua famiglia particolare (eufemismo) è lo show televisivo più visto nella storia di MTV ma anche questa parentesi da Nonno Libero in un Medico in famiglia lascia presto il posto alla sua vera natura, quella di infaticabile animale da palco, di rocker empatico, sensibile e autoironico.

La diagnosi di Parkinson, resa pubblica nel 2020, sembra mettere la parola fine, una fine gonfia di tristezza nella sua incredibile parabola. Ma c’è ancora energia per qualche altro colpo di coda: l’uscita di Ordinary Man e Patient Number 9, i suoi ultimi due lavori e, parliamo di due settimane fa, il suo monumentale addio alle scene, il mitologico Back to the Beginning dove tutto è cominciato, nella sua Birmingham, circondato dal gotha della musica pesante come una peperonata il 15 di agosto. Un evento storico, lontanissimo dalla pornografia del dolore e dalla sterile mania autocelebrativa per fare cassa (l’intero ricavato, 140 milioni di sterline, è stato devoluto alla cura del Parkinson e all’ospedale dei bambini di Birmingham) durato nove ore in cui si sono succedute performance memorabili e miracoli assortiti (Steven Tyler che ritrova la voce!), tutte un assist per il gran finale: un set di brani dalla sua carriera solista affiancato dal fedele Zakk Wylde in cui Ozzy, distrutto nel fisico ma ancora in grado di sprigionare scintille dai suoi occhi spiritati, fa piangere i 45 mila fan intonando una struggente Mama I’m Coming Home (se non vi commuovete guardandola avete un disco di Ultimo al posto del cuore), e i suoi Sabbath al completo, insieme per l’ultima volta dopo 20 anni.

Possiamo onestamente chiedere di più? Osbourne li ha messi tutti in fila, ha fatto vedere al mondo intero come si fa un’ultima volta e poi ha detto buonasera, la musica è finita. Un vero eroe omerico, artefice della migliore uscita di scena nella storia della musica (a pari merito con quella di Bowie).

Un giovanotto mi ha chiesto su Instagram qualche giorno fa come mai noi fan dei Sabbath stravediamo per Ozzy, quando Ronnie James Dio è un cantante di gran lunga superiore. È verissimo, Ozzy aveva un timbro vocale peculiare e riconoscibilissimo, quasi sgraziato, senza un’estensione vocalica degna di nota. Un fisico alla Renzo Montagnani, la prestanza atletica del Tafazzi di Giacomo Poretti. Ma nonostante o grazie a tutto questo è stato uno dei più grandi di tutti i tempi. Non ha mai voluto cambiare il mondo, era un uomo ordinario che ha fatto cose straordinarie, un grande papà (almeno con i suoi ultimi tre figli) e ora, mama, è finalmente tornato a casa. Grazie di tutto Ozzy, non ti dimenticheremo mai.

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