A cos’è servito il Live Aid? | Rolling Stone Italia
40 anni dopo

A cos’è servito il Live Aid?

Una delle tante risposte è contenuta in questo estratto dal libro ‘Live Aid, il suono di un’era’: l’effetto imitazione, il successo delle band, gli aiuti umanitari, la controversia sulla gestione dei soldi, il debito

A cos’è servito il Live Aid?

George Michael, Harvey Goldsmith, Bono, Paul McCartney e Freddie Mercury al Live Aid di Londra nel 1985

Foto: Staff/Daily Mirror/Mirrorpix/Getty Images

Il Live Aid si era spento. I riflettori si erano abbassati, ma le sue onde si stavano appena alzando. Gli stadi erano vuoti, e gli applausi si erano dissolti nell’aria estiva, eppure qualcosa, sotto la superficie, continuava a vibrare. La musica aveva firmato un patto con la realtà, e per un attimo sembrò che il mondo intero avesse saputo parlare la stessa lingua.

Quello che era successo, e come era successo, non aveva precedenti. E nemmeno avrebbe avuto eredi. D’altra parte, però, sono molti gli artisti che dopo il Live Aid videro balzare i propri dischi, vecchi e nuovi, ai primi posti delle classifiche. Altri, seppur apparentemente passati di moda, furono riscoperti dal grande pubblico e diedero il via a una seconda fase della loro carriera.

Il Live Aid fu anche il primo evento a innescare una lunghissima serie di concerti di solidarietà, e nel corso dei rimanenti anni Ottanta non si sarebbero più contati gli spettacoli musicali promossi con lo scopo di raccogliere fondi per qualcuno, ma tutti destinati a diventare inevitabilmente emulazioni di qualcosa che non era, e non sarebbe mai stato, imitabile. Una volta che il sipario calò, a chiusura ufficiale dell’evento madre, iniziò il vero lavoro: la gestione dei soldi e degli aiuti umanitari.

Dal momento in cui era stato pubblicato il singolo di Band Aid, Geldof non aveva mai smesso di battersi per superare l’ultimo cavillo burocratico che non era ancora riuscito ad annullare, ovvero il recupero di diversi milioni di sterline di VAT (la nostra IVA) sulla vendita della canzone. Il governo inglese non aveva mai voluto cedere. Fino a quel punto, però. Fino a quando, dopo infinite pressioni, richieste e contrattazioni, l’ago dell’interesse politico si era spostato e, senza darne troppa pubblicità, nel notiziario della notte fu diffusa la notizia che Margaret Thatcher aveva finalmente acconsentito alla restituzione dell’IVA sulle vendite del singolo. Aveva ceduto, ma non lo seppe quasi nessuno e i giornali non ne parlarono: la notizia era circolata solo venerdì sera, sul tardi, quando i giornali del sabato erano già in stampa e quelli del lunedì non avrebbero avuto interesse a riportare un’informazione marginale che risaliva al venerdì precedente. Quella era la politica inglese con la quale Geldof si scontrava, ma quei milioni ora sarebbero entrati nelle casse di Band Aid e sarebbero stati destinati agli aiuti umanitari.

Ma anche se questa storia appare senza dubbio come la più bella degli anni Ottanta – rappresentandone oltretutto l’esatto baricentro – potrebbe legittimamente sorgere una domanda: quale fu la reale utilità di tutta la faccenda? Negare che Live Aid sia servito sarebbe puro populismo. Ma, al contrario, dire che il Live Aid risolse la maggior parte dei problemi che voleva affrontare avrebbe lo stesso valore.

Bob Geldof, infatti, non ha mai detto che i problemi furono risolti, né che le cose andarono esattamente come aveva pensato, tantomeno come avrebbe voluto. Quando, il 23 ottobre 1984, vide il documentario di Buerk, si imbatté solo nella punta dell’iceberg. La carestia era l’amara e triste copertina di quella storia. Era la fotografia di una situazione che commuoveva, e che spinse a smuovere la volontà di tutti i protagonisti che realizzarono ciò che accadde nei successivi nove mesi. Band Aid e Do They Know It’s Christmas?, rappresentarono la prima onda, quella che smosse la superficie. Il resto fu il progressivo sommarsi di azioni e conseguenze.

Geldof capì ben presto che il problema non sarebbe stato raccogliere soldi, ma trovare il modo di spenderli per ciò a cui erano destinati. Oggi è rimasto coerente alle sue promesse e ai suoi ideali, ma grazie all’esperienza ha avuto modo di comprendere meglio i meccanismi che all’epoca non erano visibili e potevano sembrare facilmente aggirabili. Non è un riferimento alla povertà e alla miseria, realtà che aveva visto in prima persona, ma alla verità legata al potere che muoveva le decisioni politiche e gli interessi personali dei governanti, all’interno degli stati autocratici di quel gigantesco continente.

Durante la prima fase di Band Aid, tra la registrazione del singolo e la realizzazione del Live Aid, Geldof andò per la prima volta in Etiopia e successivamente in Sudan. Lì, si rese conto che le decisioni riguardo la gestione degli aiuti passavano attraverso mani illecite. Vide con i suoi occhi ciò che la televisione non mostrava: i gretti interessi personali che schiacciavano impietosamente il popolo inerme e privo di istruzione.

Nel 1985, mentre il mondo applaudiva l’onda emotiva del Live Aid, l’Africa riceveva tre miliardi di dollari in aiuti, ma ne restituiva il doppio in interessi alle banche occidentali. Una vittoria solo apparente, quindi, se vista da lontano, che nascondeva un paradosso amaro sotto la superficie della solidarietà. Quei prestiti erano fatti per finanziare una causa ritenuta ben più importante rispetto a quella del benessere di una popolazione che doveva essere mantenuta ignorante e affamata: la guerra. Non è però corretto affermare che i soldi del Live Aid furono usati per comprare armi, anzi è doveroso sapere che gli oltre centocinquanta milioni di dollari raccolti dal Live Aid furono gestiti da Band Aid, che comprò cibo e aiuti umanitari. Tuttavia, una parte consistente di quei fondi finì nelle casse delle associazioni sul territorio africano. Questo perché l’ideale dovette fare i conti con la logistica: molti di quei dollari furono spesi per pagare i costi più ingenti, ovvero i trasporti degli aiuti. Di conseguenza, ci vollero milioni per acquistare navi, camion, aerei, e per pagare il carburante, oltre che gli inevitabili dazi doganali. Quei dazi rappresentarono nuovi percorsi per i soldi, e alcuni di quei percorsi portarono all’acquisto di armi.

Dietro molte di quelle associazioni, apparentemente umanitarie, si celava l’ombra lunga dei governi locali. Alcune erano vere e proprie prolunghe del potere, altre costrette a piegarsi a compromessi per non essere spazzate via con un decreto. Era quindi del tutto inevitabile che i soldi transitassero attraverso quei canali, e altrettanto inevitabile che molti di quei milioni scomparissero durante le transazioni.
È così che molti di quei soldi si trasformarono in proiettili, fucili e bombe per armare gli uomini e i bambini nelle innumerevoli e interminabili guerre civili. Conflitti locali voluti e alimentati dai governi per il mantenimento del potere e del controllo territoriale. D’altra parte, da che mondo è mondo, è molto più semplice governare un popolo stremato dalla guerra, affamato e non istruito, piuttosto che il suo contrario.

Geldof ha messo ogni fibra della propria energia per sostenere quella causa, e, purtroppo, in quella causa ci è rimasto invischiato. Ha ripetutamente dichiarato che se fosse dipeso interamente da lui, ogni singolo spicciolo sarebbe stato convertito in cibo e acqua. Non avrebbe mai tradito i milioni di persone che si sono fidate di ciò che aveva promesso, ma a un certo punto, purtroppo, non ha più potuto avere il controllo che serviva. L’idea fu visionaria, realizzarla fu un’impresa, portarla avanti richiese uno sforzo titanico, e una volta conclusa, come in natura, gli avvoltoi iniziarono a girare su ciò che restava: i soldi. Geldof è stato ascoltato da persone tra le più importanti e influenti al mondo, ha avuto scontri e confronti, come il famoso battibecco con la Thatcher, alla quale chiese di evitare di buttare tonnellate di burro e di inviarlo in Africa, e in risposta ricevette la famosa frase: «Ma loro non mangiano burro».

Ha pure ricevuto decine di onorificenze, delle quali, a detta sua, avrebbe fatto volentieri a meno. Pochi mesi dopo il Live Aid, la Regina Elisabetta lo nominò Cavaliere per i suoi sforzi in Inghilterra, e ha continuato ad avere incontri e relazioni con persone potenti e influenti – Mitterrand, Madre Teresa di Calcutta, il congresso degli Stati Uniti, il Generale Abdel Rahman Swar al-Dahab in Sudan, i capi di governo in Etiopia e molti, molti altri. Ma è sempre stato consapevole di una cosa importante, di aver ottenuto ascolto per un unico motivo, e quel motivo non era certo il suo spirito di solidarietà. Come lo stesso Bob Geldof avrebbe detto, non solo aveva i soldi, ma aveva il consenso che quei soldi rappresentavano, ovvero il consenso del popolo, e non di un Governo. Non rappresentava sé stesso, ma milioni di persone che volevano aiutare.

Quell’enorme sforzo cambiò di certo il futuro per milioni di persone, mise in movimento una ampissima onda di solidarietà che continuò per tutto il decennio, ma contribuì anche ad alimentare armi e conflitti, quindi morte. Naturalmente non per volontà diretta, non per superficialità, non per alcun motivo imputabile a Geldof, a Band Aid o a chiunque avesse lavorato a quel progetto, ma semplicemente perché i soldi raccolti, una volta arrivati ai governi africani, risultarono soldi fin troppo facili da incassare. Erano aiuti umanitari privi di effettivi controlli, quindi perfetti per essere usati ed per alimentare interessi politici ed economici personali. Il Live Aid non fu perfetto. Fu reale. Fu, semplicemente, umano.

Tratto da Live Aid: il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore di Gabriele Medeot (Tsunami Edizioni).

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