24 ore in Maremma con Lucio Corsi | Rolling Stone Italia
Provincia elettrica

24 ore in Maremma con Lucio Corsi

La casa, il bar di fiducia, il negozio dell’usato. E la musica sempre al centro, anche perché «è più facile uscire con le canzoni che con le persone». Un giro con Lucio nel suo West, dal numero speciale di Rolling Stone

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

Dalla strada che percorriamo, e che pare affogare in terra e mare, vedo a un certo punto in lontananza un lungo filare di cipressi: siamo sull’Aurelia in direzione Maremma, dalle parti di Castagneto Carducci, dunque subito penso inevitabilmente ai “cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar” per poi scoprire che stiamo proprio passando accanto a Bolgheri e di aver dunque dedotto il ricordo di una poesia dalla potenza lirica della geografia. Più giù, scendendo, la carreggiata si avvicina al mare, non so se si tratti di un effetto ottico generato dalla velocità, ma sembra di sfrecciare direttamente lungo la battigia, la zona è quella di San Vincenzo e l’arancio del sole un attimo prima di farsi raggio verde sulla linea dell’orizzonte marino mostra in lontananza la sagoma di Capraia come un’apparizione magica: è con lei ancora negli occhi che ci addentriamo in corsa e ormai nel buio, nel Far West maremmano.

A Castiglione della Pescaia, tra la palude e il mare, siamo in dodici forestieri in tutto il paese, ottobre si sta facendo freddo e inferocito e gli unici a restare in maniche di camicia sono ormai questi turisti svedesi arrivati qui a godersi un’estate che non c’è più, un’estate che però, loro lo sanno meglio di noi, nel Mediterraneo riverbera sempre in qualcosa, anche quando l’aria frizza dei primi freschi e a noi, abituati al ribollire delle spiagge, sale solo la malinconia. Con Lucio ho appuntamento per cena al ristorante di famiglia sulla via Castiglionese, si chiama Macchiascandona come la minuscola località in cui si trova, tra Castiglione e Vetulonia, ed è uno stop che ormai, dopo Sanremo, conoscono tutti. So esattamente a quale tavolo lo troverò seduto ad aspettarmi: non è la prima volta che ci vediamo qui e lui è un vero abitudinario. Nella vita di ogni giorno, in una serata qualsiasi, Lucio si veste come quando lavora, non ci sono abiti solo per i servizi fotografici e abiti solo per la vita, un look per pranzare con la famiglia e uno per la stampa o i personaggi noti a cui mostrarsi. Il lavoro e il quotidiano abitano in Lucio in una costante dimensione fusionale e questo non riguarda solo l’estetica, ma tutta quanta la sua vita. Solo la maschera bianca, rigorosamente dipinta da lui stesso, ogni tanto, divide il palco da quel che c’è sotto.

«A Renato Zero è piaciuta questa cosa della maschera, ha capito il senso, il fatto di usarla come una protezione, mi ha detto che a Sanremo ha visto in me un piccolo Renatino. Quest’estate mi ha invitato a pranzo a casa sua all’Argentario e abbiamo mangiato del pesce buonissimo con questa vista pazzesca sul mare, mi ha raccontato che lì dove stavamo ci giocava a carte con Raffaella Carrà e che ora, con il gruppo di persone con cui giocavano, lasciano sempre vuoto il posto dove si sedeva lei. Tra le altre cose Renato mi ha raccontato di quando si cambiava solo dopo essere uscito di casa per non farsi vedere da suo padre con i lustrini addosso, però un giorno lui l’ha beccato e gli ha detto: da domani tu esci di casa già vestito così. Ho trovato questa cosa bellissima».

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

Quest’anno per Lucio c’è stata la svolta che un artista cerca e spera per tutta la vita, e che pochissimi ottengono davvero, è una svolta che si accompagna a un talento smisurato e che arriva dopo oltre dieci anni di lavoro duro e appassionatissimo fatto di gavetta, militanza musicale da busker, EP e dischi sottovalutati sempre un po’ troppo anche dagli addetti ai lavori, e poi tanti, tantissimi live. Il 2025 ha portato un secondo posto (ma una vittoria di fatto) all’ultimo Festival di Sanremo, l’Eurovision, un lunghissimo tour di straordinario successo in tutta Italia, una data all’Abbazia di San Galgano che è diventata un disco live e un film in pellicola (girato dal compagno di avventure e di scuderia Sugar Tommaso Ottomano) e la vittoria di due Targhe Tenco, un premio che conserva un nome nobile e prestigioso e che raramente in passato aveva assegnato due premi centrali come la miglior canzone e il miglior album dell’anno al medesimo artista.

Se queste sono le medaglie enumerabili, c’è però qualcosa di più sottile e importante, qualcosa che è molto più generativo dei premi perché dura oltre il tempo di una proclamazione, è qualcosa che incontriamo anche qui seduti a questo tavolo cenando e chiacchierando, costantemente interrotti da persone che si affacciano per salutare, ringraziare, domandare autografi, foto ricordo: sono persone diverse tra loro ma che sono state tutte apertamente conquistate dalla forza impetuosa del talento di Lucio che a Sanremo ha interpretato un bisogno inconscio di scoperta e di gusto che albergava evidentemente in molti, stanchi della fissità di certe dinamiche della performance della discografia, dinamiche che vanno da tempo tutte a discapito dell’arte.

«Di questo pubblico mi piace che sia così vario, misto, ci sono bambini e nonni, ci sono i fan dei T. Rex e quelli che hanno voglia di scoprirli, persone che mi sembrano curiose. Credo che molti si fossero stufati proprio come ci siamo stufati noi di vedere certa roba costruita nelle case discografiche. Per esempio, senti, mi ha colpito che in diversi si siano accorti con entusiasmo che mi sedessi al piano e ci mettessi le dita sopra prima di cominciare, ma è ovvio no? Io mi siedo e provo se il pianoforte va. Persino dei piccoli gesti normalissimi non sono da tempo cose ovvie agli occhi di tanti, e poi mancava secondo me un certo tipo di cantautorato pop più elegante al Festival, che è anche quello a cui noi siamo legati e che io in qualche modo cerco di portare in giro, o un rock anni ’70 più glam, diverso dal rock italiano più tamarro. Quando le persone mi dicono cose che erano quelle che volevo suscitare in chi ascolta, un pensiero sul mio approccio alla canzone, agli strumenti, ecco, quando passa questo, io sono felice».

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

Mentre mangiamo gli ormai mitologici tortelli di nonna Milena (90 anni e instancabilmente in cucina da mattina a sera), parliamo della lunga estate appena trascorsa, con date serratissime ovunque. «Tutto è andato bene, i ragazzi con cui suono sono gasati, e questo giro è servito anche a capire come crescere e migliorare live per posti più grandi. C’è grande margine di miglioramento espressivo sul palco, ma per me a volte è difficile, vorrei sempre che avessimo tutti la stessa identica fame in ogni momento, sono molto intransigente anche quando non mi fermo per otto mesi ma penso di dover anche fare pace con questa cosa: il tour è andato benissimo ma spesso a me manca la soddisfazione di aver spaccato davvero come io ho in testa anche perché giriamo con questo approccio veramente impegnativo, con le spie da band anni ’70. Sanremo in una settimana ha cambiato ogni cosa: i posti, le dimensioni ovviamente, e l’allestimento… è stato tutto ambizioso perché abbiamo fatto tantissime date e tutte senza in-ear». Una delle cose più interessanti di parlare con Lucio è un’altra cosa ovvia che però spesso manca: parlare davvero di musica con un musicista. «Fare tutto senza in-ear e basi è una cosa difficile al giorno d’oggi in cui la prassi è andare sul palco con le cuffie, i suoni già pronti, attaccarsi e via, tutti portano il mix che serve a loro e che funziona ovunque, che sia una cava, un prato, un piazzale. A me piace alla vecchia maniera, sarebbe bello se ci fosse una formazione anche per questo perché le persone, i tecnici che sanno ragionare in quest’ottica ormai sono inevitabilmente sempre meno».

Sotto la notte stellata della Maremma, dove le stelle sono stelle davvero e sono tante quante le sigarette che Lucio può accendersi in una sera soltanto, parliamo della colazione del giorno dopo: «La facciamo al Bozzone che è il mio baretto di fiducia diciamo, fanno le paste ed è il posto dove vado la mattina se non voglio fare colazione a casa, ma lo sai che io a casa sto meglio sempre, con lo studio e le mie cose. Quindi andiamo lì e poi a casa».

Eccoci qua: prima regola del Lucio Club: solo cose semplici e nessun vezzo, anche adesso che il successo è arrivato nessuna abitudine è cambiata, nessun vizio, solo sigarette e strumenti musicali: «Mi sono giusto concesso una chitarra, una Gibson bellissima, una Les Paul Custom delle mie, presa da questo Hendrix Guitars vicino a Genova, e poi il CP70 che volevo da una vita senza però avere con me abbastanza persone che mi aiutassero a trasportarlo nei live». Il CP70 è un pianoforte Yamaha molto pesante, difficile da portare in giro, da spostare e trasportare, è uno strumento elettromeccanico mitologico nella storia della popular music, con le corde del pianoforte vere al proprio interno. È stato prodotto per poco più di un decennio tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 e ha fatto da sé il suono distintivo di alcuni grandi autori italiani (e non) di canzoni durante i ’70s, uno su tutti: Lucio Dalla.

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

Il Bozzone è un bar minuscolo, qualcuno nel piccolo pergolato esterno beve un bianchino o un Camparino della colazione, alla bacheca di sughero ci sono annunci di compravendite che si possono leggere immersi nel silenzio dei campi intorno col rumore alternato delle auto che sfrecciano veloci sulla provinciale frustando l’aria fresca. Puoi trovarci di tutto, persino annunci per fucili da caccia perché in tanti qui cacciano ancora lepri e cinghiali.

Il cielo è azzurro e la natura, in questo incrocio che sembra nel nulla ma forse è nel tutto, ha colori caldissimi e pronti all’esplosione autunnale. Ordiniamo cappuccini e cornetti alla crema e mentre Lucio apre un succo di frutta io penso alle Grandi Pianure americane e gli dico che da qui mi pare che a volte i campi bastino: «Sì, all’inizio vuoi scappare, poi quando vedi com’è l’aria altrove torni, io non ho mai sofferto il fatto di stare qui, il fatto di essere in campagna, col verde, l’ho sempre visto come vantaggioso, ma comunque anche ora io qui ci torno sempre, sto più qua che a Milano. Qua ci sono gli amici di sempre, gli stessi dai tempi del liceo, uno fa il pittore, poi c’è un insegnante di lettere in un liceo, un antropologo, e tanti altri. È una grande compagnia che ho da moltissimi anni». Impossibile non credere alla forza di questa sospensione apparente del tempo in questa porzione di spazio, e mentre lo penso ricordo che il tempo che passa è anche una delle cose che spaventano di più Lucio e questo potrebbe essere uno di quei luoghi sulla Terra in cui al contempo si percepisce il tempo correre via veloce e andare lentissimo: «Ho sempre paura del tempo che passa, questa cosa non cambia per me, ma anche nei miei momenti meno belli, suonare è una cosa che mi ha sempre fatto felice: fare le cose di lavoro mi dà grande sicurezza anche rispetto al tempo. Mi diverto, per me è molto più facile uscire con le canzoni che con le persone».

Saliamo in macchina, una Mazda decappottabile che era di suo zio, e dall’autoradio di Lucio parte Randy Newman, e anche se ci eravamo ripromessi per una volta di non parlare più di lui, farlo è inevitabile: «Quello che sta succedendo è una faccenda tragicamente gigante, faccio fatica a trattare queste cose su Instagram mentre sto nella bambagia del lavoro, io preferisco pensarci, rifletterci e poi semmai scrivere canzoni: ne parlo con amici, con i miei, poi penso sempre di usare la musica non in maniera diretta, ma trasversale, non mi sento nemmeno in grado di farlo in modo diretto. La cosa che ho imparato a fare negli anni è parlare di alcune cose attraverso le canzoni, ma la canzone che scrivo non può non soddisfarmi artisticamente solo perché io dica qualcosa: i pensieri, i ragionamenti che finiscono nelle canzoni comunque fanno cose, smuovono, agitano. Per esempio le canzoni di Randy Newman sono proprio quello che credo sia la maniera intelligente, esposta, scomoda di parlare in modo politico dell’umanità, del mondo: le sue scomodità mettono in risalto assurdità, con tenerezza e insieme pietà e cattiveria. Mi piacerebbe davvero saper scrivere in questo modo, ci provo però è molto difficile perché quella capacità di esprimere una cattiveria sana è una cosa di quando si è bambini, non a caso lui scrive canzoni pungenti da autore per adulti e anche canzoni per bambini, le due cose sono in comunicazione, per farlo so che devo accedere a una parte di me in cui sono bambino, ma più cresco più è ovviamente difficile».

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

La casa della famiglia di Lucio, dove siamo arrivati sfrecciando per i campi, è piena di foto di lui da bambino, la cucina bellissima in cui prepara altri caffè è piena di immagini e oggetti del passato, rimanda a un modo insieme sentimentale e concreto di vivere la vita, ci sono utensili e vecchie foto e bigliettini che condividono spazi e pareti, in una di queste immagini Lucio è su un sidecar con Nicoletta, sua madre, mentre suo padre è alla guida. In molte di queste fotografie Lucio è sorridente e anche i suoi genitori. «Se non avessi fatto il musicista magari sarei finito a lavorare al ristorante, ma è una cosa che ho visto fare a mia mamma e mia nonna fino allo sfinimento e non ho mai voluto lavorare lì, poi forse chissà avrei potuto disegnare, da piccolo ero bravo, disegnavo tantissimo, poi non l’ho coltivata molto questa cosa».

Nella casa studio di Lucio c’è di tutto, un caos bellissimo fatto di strumenti musicali, libri, vecchie riviste, posaceneri dalle forme più strambe, un libro sui coleotteri, diverse paia di Repetto (le scarpe da ballo francesi che indossava Serge Gainsbourg), una vecchia radio del Mulino Bianco regalata da qualche fan, vestiti, CD, vinili, i quadri della mamma che sono diventati copertine dei suoi dischi appesi alle pareti (altri, moltissimi, sono al ristorante e altri ancora a casa dei suoi) e una scorta di caramelle Lupo Alberto sul pianoforte: «Vivo di abitudini e mi piace, per esempio devo sempre avere scorte di caramelle, queste me le hanno regalate ma mi piacciono anche i coccodrilli con la pancia bianca (in ordine di scelta quelli rosa, poi quelli gialli, verdi, blu e arancioni), ora mi sono fissato con le cravatte e ne compro e indosso tante, vecchissime, cosa che fino a tre anni fa mai avrei pensato di fare, un po’ come finisco ad ascoltare certe produzioni di dischi anni ’80 o ’90 e a non trovarle più sgradevoli. Altre mie abitudini irrinunciabili sono il mio panino settimanale se sono a Milano, sempre con cotto, maionese e fontina, oppure la cena cinese con udon di verdura e ravioli di carne alla piastra: sempre nello stesso posto. Prima dei concerti faccio sempre stretching, riscaldamento di voce e trucco. Appena mi è possibile mi piace avere una certa regolarità nelle giornate».

Mi chiedo, e domando a Lucio, se questa regolarità non sia un insegnamento molto chiaro arrivato dalla sua famiglia, in particolare da mamma e nonna che tuttora seguono i ritmi necessari al loro mestiere di cuoche e ristoratrici: «Sicuramente da loro ho imparato a impegnarmi regolarmente, non mi piace chi non mette tutto sé stesso in quello che fa, è una cosa che per me riguarda il palco ma anche la vita, mia nonna mi ha insegnato resistenza e tenacia anche fisica, ha 90 anni ed è una vita che sta in cucina col forno acceso dietro le spalle in tutte le stagioni: io devo stare al pianoforte e ci voglio stare e ci sto, penso che non posso permettermi di fare diversamente, lo sento nel corpo, e questo è quello che ho appreso guardando loro».

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

In questa casa, così come in quella dei suoi genitori dall’altra parte del giardino, si vede la stratificazione di molti tempi, di molta storia intima e familiare, ci sono oggetti appartenuti ad altri momenti che si uniscono ai regali dei fan, in parte in una stanza, tantissimi, tutti insieme e in parte entrati nelle sue giornate in queste stanze di vita e lavori, ci sono le riviste che Lucio leggeva da bambino con interviste a Dalla, a Dylan, a Bowie, molti piccoli oggetti sparsi. In queste stanze, Lucio lavora anche alle nuove canzoni, a cui era ansioso di tornare dopo il tour: «C’è sempre un po’ di down quando ti fermi, mi sono riposato un po’ e poi mi sono messo subito a scrivere, calcola che era da otto mesi che non avevo quattro giorni di riposo consecutivi, le canzoni nuove stanno arrivando subito, me lo sentivo già quando ero in tour. Sono molto contento perché non era scontato arrivare qui ed essere subito portato nella mia dimensione di scrittura. Nel nuovo disco vorrei partire da un lavoro sui ritmi, è una cosa che non ho mai fatto prima e vorrei provare a capire cosa ne viene fuori, mi piacerebbe partire dalla batteria e poi iniziare a lavorarci, voglio trovare nuovi modi per trovare le canzoni. Al momento sto scrivendo una canzone di Natale che mi è venuta e vorrei fare uscire, sto ancora cercandole un ritornello perché il ritornello è una cosa che chiede tempo. Quando abbiamo scritto Volevo essere un duro ricordo che non mi convinceva il ritornello, lo special l’ho scritto dopo, quando ci avevano già preso, perché era importante creare uno spazio dentro la canzone per poter dire più cose. Un pezzo per me di solito è pronto a esistere quando c’è equilibrio tra leggerezza e profondità, e poi certo, ci sono quelle canzoni che non hanno bisogno di equilibrio ma di sbilanciarsi. Non ho trucchi ma spesso passo da uno strumento all’altro. È un rebus la scrittura, è enigmistica, trovare la parola o la frase precisa in metrica è un gioco. Io ho anche parole che non mi piacciono, tipo caffè, non so perché ma è una parola che nelle canzoni mi infastidisce».

Mentre parliamo Lucio suona alla chitarra On Some Faraway Beach di Brian Eno, quando chiacchieriamo in studio ha sempre uno strumento con sé se siamo sul divano oppure è seduto al piano e non sta certo fermo con le mani. Mi piace questo flusso tra le parole e i suoni, questa sensazione che Lucio mi trasmette di presenza nello scambio, ma pure di sottile assenza, come se un sovrappensiero lo attraversasse sempre, e quel sovrappensiero un po’ io sapessi cos’è: forse è un ritornello mentre viene cercato. «Intanto ti suono la canzone di Natale, poi quel ritornello arriverà».

Da Lucio si pranza in giardino sotto il sole, c’è anche suo padre e ci sono Era ed Enea, i suoi fratelli cani, con due caratteri apparentemente opposti e una complicità sorniona tutta loro. Dopo pranzo staremo in giardino, ma il programma prevede una gita prima del tramonto da Portobello, un negozio di usato a Grosseto, dove Lucio va spesso quando è qui, alla ricerca di oggetti strani e dischi, ora che i negozi di dischi dove andava da ragazzino e dove ha comprato Let It Be… Naked dei Beatles e il suo primo best of dei Rolling Stones hanno tutti chiuso i battenti come purtroppo quasi in ogni città della provincia italiana. Ci andiamo sfrecciando sulla Mazda e una volta arrivati ci perdiamo nei corridoi di oggetti appartenuti a chissà chi. «Da bambino questi posti mi mettevano tristezza, con tutti questi oggetti di altre persone che magari non ci sono più, i miei volevano sempre andarci, ma io frignavo, ora invece mi piacciono tanto e ci vengo spesso da solo».

Foto: Ray Banhoff per Rolling Stone Italia

Lucio sta cercando senza successo un mangiacassette funzionante, uno di quei vecchi registratori in cui infilare una musicassetta per registrare, i suoi sono tutti mal funzionanti, a differenza della macchina fotografica giocattolo che stampa in bianco e nero su carta, protagonista indiscussa del tour anche nelle mani di Francis Delacroix. Rovistiamo tra oggetti, libri, vecchi vestiti, tra i dischi troviamo un CD di Tapestry di Carole King e lo compriamo per ascoltarlo e cantarlo in macchina nell’ultimo giro tra le campagne. Io trovo una vecchia edizione bellissima dei Minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, con una prefazione di Enzo Jannacci che leggiamo mentre torniamo all’auto: siamo nella zona industriale di Grosseto e un gruppo di lavoratori che sta per andare a casa esce da un capannone perché ha intravisto Lucio e vuole una foto con lui.

Mentre lasciamo la città, Lucio mi mostra la scuola media Vico dove ha studiato e mi racconta che con i suoi amici fino a non molto tempo prima ci si trovava in un bar libreria del centro ora chiuso per sempre. Tornando verso la Castiglionese e Vetulonia, su queste strade provinciali, al crepuscolo, sfrecciamo dentro un cielo viola azzurro che sembra colorato a pastello da Andrea Pazienza, dall’autoradio Carole King canta e noi con lei, scambiandoci reciprocamente lo stupore per questo disco perfetto che conosciamo a memoria. «È perfetta, fa movimenti minimi delle mani, è bello come sono affrontati gli accordi, nei rivolti, è un arrangiamento alle ossa: piano, batteria ed è come dovrebbe essere il pop. Un esempio lampante, è pure un disco mai noioso, sono tutte canzoni pazzesche e la sua voce è esile come struttura, bellissima, ma i suoi pezzi esili non lo sono mai. Mi piace studiarmi i dischi, ultimamente sono impazzito per Fito Páez e soprattutto Charly Garcia, Lorenzo Jovanotti un giorno mi ha scritto che glielo ricordavo, in effetti mi ispira anche molto, Piano Bar è un disco che ho davvero consumato e dissezionato. Quest’estate ho ascoltato tanto Lennon solista in particolare Milk and Honey e Walls and Bridges, e poi amo Ringo, in particolare in Ringo del ’73 ma anche George e beh… Paul sono quasi in imbarazzo anche a dirlo, non saprei scegliere tra i suoi lavori. How? di Lennon comunque è il pezzo che con Tommaso usiamo sempre come riferimento per le batterie».

Alla fine arriviamo, Lucio spegne l’auto, in giardino ci sono le prime foglie rossissime, prima di uscire gli chiedo in cosa è stato più orgoglioso di sé, in fondo, di questi mesi bellissimi, lui mi risponde semplicemente così: «Sono orgoglioso di essere riuscito a fare ciò che amo di più al mondo pur avendo investito davvero tante, tantissime ore della mia vita a giocare alla PlayStation a Ride, Gran Torino o Kerbal cercando di portare certi giochi dove piace a me. Ora, dopo aver imparato da bambino a giocare a dama, ho imparato gli scacchi perché Jacopo, il mio tastierista, mi ha fatto innamorare delle storie delle partite di Bobby Fischer, dunque passo un sacco di tempo su chess.com a giocare con gente che sta dall’altra parte del mondo, ma prima o poi andrò in Argentina e in Giappone».

Tratto dal numero speciale cartaceo di Rolling Stone dedicato a Lucio Corsi, in edicola e online.

Lucio Corsi speciale cartaceo

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