Quando Carrie & Lowell arriva sugli scaffali dei negozi di dischi nel 2015 Sufjan Stevens è un nome di nicchia, un artista di culto pieno di concept strampalati più o meno riusciti (come cinque album a tema natalizio raccolti nel cofanetto Songs for Christmas e l’idea di fare un disco per ogni Stato americano, progetto naufragato dopo gli splendidi Michigan e Illinois) che gestisce un’etichetta indipendente dove pubblica i suoi lavori chiamata gatto asmatico, Asthmatic Kitty Records. Alle spalle sei album solisti, una serie di EP e compilation, un joint album a nome Sisyphus con Serengeti e Son Lux e una lista di canzoni bellissime che viaggiano nel terreno fertile dell’indie del primo decennio del millennio e che spesso vengono (anche) utilizzate da chi vuole fare un po’ l’ascoltatore figo e ricercato, così come succederà con gli scozzesi Snow Patrol che nel momento di massima ascesa citeranno il cantautore nella loro Hands Open (“Put Sufjan Stevens on and we’ll play your favourite song Chicago”, “Ho messo su Chicago di Sufjan Stevens, la nostra canzone preferita”).
Quando Carrie & Lowell arriva sugli scaffali dei negozi di dischi nessuno sa cosa aspettarsi da Sufjan Stevens. Sono infatti passati cinque anni dal suo ultimo lavoro, The Age of Adz, una virata nella weird electronica che ha spiazzato i fan del precedente Illinois e che ha portato per la prima volta l’artista nella Top 10 americana. Sarà un album sulla falsariga di quel successo coloratissimo o un ritorno al cantautorato sinfonico fatto di riferimenti biblici, misticismo e piccole e grandi storie del folklore americano? Le 11 tracce di Carrie & Lowell ribaltano ancora una volta tutto e l’album diventa presto il più importante nella discografia del cantautore. Si potrebbe ricercare la spiegazione in qualche combinazione astrale (e forse Sufjan sarebbe il primo a proporre ipotesi fatte di costellazioni e pianeti), ma il fatto è molto più semplice, e fortunatamente molto più musicale: Carrie & Lowell è un disco di una sincerità rara, di una delicata bellezza come non se ne sentiva da parecchio.
I nomi di persona che troviamo nel titolo, e che trovano corpo nell’immagine di copertina, sono quelli della madre e del patrigno dell’artista. L’album infatti trova la sua genesi in un episodio sconvolgente nella vita del cantautore; la morte della madre avvenuta nel 2012, tre anni prima della pubblicazione del disco. Ma come mai fino a quel momento, il dolore conduce Sufjan al cuore della sua musica. L’album si presenta musicalmente scarno, ridotto all’essenziale, una novità nella barocca carriera dell’artista. Le varie chitarre si inseguono tra arpeggi e vengono dimenticate le strummate ingombranti. Anche i testi mitigano l’eccessivo uso di metafore impenetrabili per raccontare una sofferenza che arriva all’ascoltatore cruda come un pugno nello stomaco, mescolando morte, rimpianto, tristezza con la delicatezza magica della penna di Sufjan.
Prendiamo per esempio un passaggio di Fourth of July: “The hospital asked: Should the body be cast? Before I say goodbye, my star in the sky. Such a funny thought to wrap you up in cloth, do you find it all right, my dragonfly?” (“Dall’ospedale hanno chiesto se il tuo corpo dovesse essere sepolto prima che ti dicessi addio, mia stella del cielo, che pensiero divertente quello di avvolgerti in una stoffa, lo trovi giusta mia libellula?”). O ancora in Eugene: “What’s left is only bittersweet for the rest of my life admitting the best is behind me / Now I’m drunk and afraid, Wishing the world would go away / What’s the point of singing songs, If they’ll never even hear you?” (“Quello che resta è dolceamaro, per il resto della mia vita ammetterò che mi sono lasciato alle spalle il meglio / Ora sono ubriaco e spaventato e spero che il mondo svanisca / Quale senso ha cantare delle canzoni, se non ti ascolteranno mai?). Nessuno dei brani riesce a entrare in classifica, ma il disco raggiunge la Top 10, a dimostrazione di come sia il corpus di canzoni la forza di questo lavoro. Carrie & Lowell diventa così un viaggio condiviso sulla sofferenza legata a un perdita e sulla dolcezza con cui si può guardare (e parlare) a una morte, a una madre, a una morte di una madre.
Abbagliato dalla sua sensibilità, Luca Guadagnino gli affida il brano portante per il suo successo di critica e botteghino Call Me by Your Name. Ne esce fuori Mystery of Love, seguita dal lato B Visions of Gideon. Entrambe – seguendo il suono piccolo, privato, intimo di Carrie & Lowell – entreranno nella classifica americana, con la prima che riuscirà a raggiungere la posizione numero 13, la più alta mai raggiunta in ottenuta dal cantautore. Il nome di Sufjan Stevens diventa così globale anche grazie alla candidatura di Mystery of Love agli Oscar, dove si esibirà nella serata di premiazione del 2018. Sullo stesso spettro sonoro usciranno ancora due piccole gemme, Tonya Harding e Make Out In My Car, cover di Moses Sumney, ma a quei tempi Sufjan Stevens è già fuggito altrove con Planetarium, un album dedicato al sistema solare registrato con una band formata da Bryce Dessner dei National, il batterista James McAlister e il compositore classico Nico Muhly. E oggi che, la vita, oltre che la madre, gli ha portato via il patrigno Lowell e il compagno, oltre che la possibilità di camminare per quasi un anno a causa di un’improvvisa malattia folgorante da cui si sta lentamente riprendendo, Stevens si sente più lontano che mai da quel suo capolavoro intimista.
Così mentre Carrie & Lowell viene oggi ristampato con sette nuove versioni (tra demo e take alternative) dei brani presenti al suo interno (a differenza di Wallowa Lake Monster, contenuto però in The Greatest Gift, un mixtape che raccoglieva remix, demo e outtake di Carrie & Lowell), Sufjan Stevens è tornato a parlarne in maniera piuttosto imprevedibile, come di sua abitudine. «Sono piuttosto imbarazzato di questo album», ha raccontato a NPR. «Sento di non avere l’autorità su mia madre e la sua vita, la sua esperienza e la sua morte. Tutto ciò che ho è la mia immaginazione e la mia miseria, con cui ho provato a dare un senso al tutto. Ma sono contento che le mie canzoni possano esistere nonostante le mie fallite intenzioni e le mie cattive intenzioni. Ma non mi sento bene per aver scritto quelle canzoni». Nonostante la sua visione fatalista, anche noi siamo grati che le canzoni di Carrie & Lowell possano continuare a suonare cercando di aiutare l’ascoltatore a comprendere misteri impossibili come quelli della morte e del lutto.
L’ultima volta che ho ascoltato Carrie & Lowell prima di oggi è avvenuto in modo accidentale. Ero dentro il grande edificio che ospita la Tower Records a Shibuya, a Tokyo, otto piani dedicati agli amanti di ogni qualsiasi tipo di musica. Nel piano dedicato ai vinili nuovi e usati Carrie & Lowell risuonava a un volume piuttosto alto (tipico dei locali giapponesi) da un soundsystem piuttosto importante (tipico dei locali giapponesi). Erano le 9 di sera e il piano era occupato da un buon numero di avventori – turisti e local – alla ricerca del disco perfetto. E il disco perfetto era lì, nell’insito controsenso di suonare a fortissimo volume raccontando una minuscola storia personale diventata in questi 10 anni, però, universale. Scusaci Sufjan, questo disco rimarrà.