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Storia semi sentimentale dei bootleg ufficiali dei Pearl Jam

La pubblicazione di 186 concerti del gruppo non è la solita uscita d’archivio, ma il culmine di un processo iniziato vent’anni fa. C’entrano la passione per i bootleg di Eddie Vedder e il rapporto con i fan

Storia semi sentimentale dei bootleg ufficiali dei Pearl Jam

Eddie Vedder dal vivo con i Pearl Jam nel 1996

Foto: Gie Knaeps/Getty Images

«Tutta colpa di voi italiani che siete i maggiori produttori mondiali di bootleg». Quando Eddie Vedder ti dice una cosa del genere, ti conviene pensare a una replica convincente. Eravamo nel backstage dell’Arena di Verona e i Pearl Jam avevano appena fatto un concerto memorabile. Poche settimane prima, era il giugno 2000, il gruppo aveva annunciato un progetto fuori dall’ordinario: pubblicare un album dal vivo per ogni tappa del tour europeo e metterlo in vendita nei negozi di dischi, che presto sarebbero stati invasi da decine di doppi CD. Una cosa mai vista: altri avevano pubblicato bootleg ufficiali, nessuno con questa modalità. Avevo chiesto a Vedder come fosse nata l’idea e lui mi aveva risposto così: colpa di voi italiani. In un attimo m’erano passate per la testa le cause legali di Bruce Springsteen contro i “pirati”, i nomi delle etichette italiane specializzate in registrazioni illegali, la copertina del bel cofanetto dei Pearl Jam che avevo a casa contenente session trafugate da chissà chi, il negozio di dischi a Milano che vendeva solo ed esclusivamente album dal vivo non autorizzati. Mentre cercavo di mettere assieme una difesa d’ufficio del carattere nazionale, Vedder era scoppiato a ridere. Mi stava prendendo in giro. Era anche lui un gran consumatore di bootleg.

La scena m’è tornata in mente una decina di giorni fa, quando i Pearl Jam hanno pubblicato sulle piattaforme di streaming l’audio di 186 concerti dal vivo fatti dal 2000 al 2014. All’operazione è dedicato un sito chiamato Deep, come la canzone di trent’anni fa e come l’immersione verticale promessa dall’ascolto di queste registrazioni. Mi chiedo come possa avere reagito alla notizia un appassionato cresciuto nell’era digitale. Probabilmente con un’alzata di spalle e non perché effettivamente Vedder e i suoi non sono rilevanti come vent’anni fa, ma perché digitando “Pearl Jam live” su YouTube si ottiene l’accesso a un vasto archivio di canzoni e concerti interi, più di quanti il poco tempo che abbiamo a disposizione e la nostra ridotta capacità di attenzione ci permettano di ascoltare. E invece quella dei Pearl Jam fu un’operazione rivoluzionaria, sia in termini commerciali, sia diciamo così sentimentali. Per capirlo, però, va capito il 2000.

Foto: Gie Knaeps/Getty Images

Il giorno in cui Eddie Vedder m’ha preso in giro non solo non esistevano i servizi di streaming, non c’era nemmeno YouTube. Esisteva Napster e già se la vedeva con i Metallica, ma non c’era l’iPod e l’iTunes Store sarebbe arrivato solo nel 2003. Conteneva “appena” 200 mila canzoni contro le 40 mila che Spotify carica ogni giorno. L’era digitale era iniziata, ma vivevamo ancora nell’analogico.

L’unico modo per sentire le registrazioni di un gruppo dal vivo era attraverso i bootleg – prima vinili e cassette, poi CD – che fin dagli anni ’60 contenevano registrazioni di session mai pubblicate ufficialmente (mai sentito parlare del Great White Wonder di Bob Dylan?) e molto più spesso registrazioni live. Alcuni bootleg, da Pièce de Résistence di Bruce Springsteen al live ad Atlanta dei Pearl Jam, erano venerati fra gli appassionati al livello e spesso più di certi dischi ufficiali. Tanto più l’artista aveva la fama di grande performer, tanto più le registrazioni illegali assumevano valore. La scarsità di dischi dal vivo ufficiali le rendeva ancora più preziose e i fan accaniti erano in grado di recitare a memoria discografie parallele, citando titoli venduti di straforo per pochi connoisseur che si favoleggiava contenessero esibizioni strepitose, cose mai sentite prima.

E però i bootleg avevano una serie di problemi. Intanto erano illegali. Se la cosa non disincentivava gli appassionati, disturbava non poco certi artisti che si sentivano derubati. Non si trattava di cassettine che giravano tra i fan, dietro c’era un’industria parallela che faceva soldi senza riconoscere alcunché agli aventi diritto. I bootleg non erano di facile reperibilità, anche se molti negozi rispettabili li tenevano assieme ai dischi ufficiali sfidando i sequestri. Erano costosi rispetto al prezzo di un album normale e spesso avevano grafiche e informazioni a dir poco approssimative. A volte riportavano solo spezzoni di concerti, con pezzi eliminati arbitrariamente o tagliati bruscamente. Troppo spesso contenevano incisioni di scarsa qualità audio. Quando andava bene la fonte era il mixer, quando andava male si trattava di registrazioni ambientali, fatte con un microfono piazzato in mezzo al pubblico. Potevi sentire le persone presenti al concerto parlare sopra la musica, fare commenti, stonare le canzoni, mentre dal palco proveniva un’eco ovattata e lontana della musica, scandita da una batteria metallica e carica di riverbero.

Al netto del passaparola, l’unico modo per scoprire se un bootleg era buono era comprare il vinile o il CD, portarlo a casa e ascoltarlo: un bel rischio. Li si acquistava lo stesso perché non c’era altro modo per avere traccia delle imprese live dei gruppi che amavamo. «Da ragazzo», mi raccontava quel giorno di giugno Eddie Vedder, «compravo bootleg in vinile e non sapevo che cosa poteva capitarmi. Li pagavo 8 dollari e una volta arrivato a casa scoprivo che erano inascoltabili. Non voglio che succeda ai nostri fan, non voglio che spendano 50 dollari per un’incisione di bassa qualità. Adesso avranno CD che si sentono bene a 10, massimo 12 dollari».

Sembrava una preoccupazione genuina. Un po’ come i Grateful Dead, da tempo i Pearl Jam permettevano ai fan di effettuare registrazioni audio in loco. Nell’era pre smartphone non era affatto scontato. Addetti alla sicurezza si assicuravano che non fossero introdotti in sala registratori o macchine fotografiche che per passare i controlli venivano nascoste ovunque, nelle mutande, dentro i panini. Ai fan dei Pearl Jam era invece consentito registrare gli show purché non venisse usata attrezzatura professionale. I bootleg ufficiali erano un’estensione di questa filosofia, il tentativo di creare un legame ancora più solido col pubblico offrendo a prezzi ragionevoli registrazioni live di qualità. Era anche un modo intelligente di sfruttare un asset formidabile dei Pearl Jam, le esibizioni dal vivo. Pubblicando decine di titoli, che in poco tempo sarebbero diventati centinaia, la band avrebbe saturato il mercato dei dischi dal vivo, mettendo fuori gioco i produttori illegali. E pensare che in principio il manager del gruppo Kelly Curtis aveva avuto un’idea più semplice e provocatoria: comprare le registrazioni illegali esistenti e pubblicarle ufficialmente. «Sembrava un’idea divertente e di certo non avrebbero potuto farci causa», spiega nel libro Pearl Jam Twenty.

Quando finalmente uscirono i bootleg ufficiali del tour europeo del 2000, tutti i concerti tranne ovviamente quello di Roskilde, sentii subito quelli a cui ero stato, per poi gettarmi nell’ascolto degli altri. Non era come avere in casa tre, cinque, dieci bootleg tratti dall’intera carriera di un artista, un live del 1975, uno del 1978, magari uno del 1985. Approssimava piuttosto l’esperienza di seguire il proprio gruppo preferito in tour. Era una cosa totalizzante.

Quasi ogni concerto faceva storia a sé. Non solo per le set list che la band cambiava spesso, ma anche e soprattutto per la varietà delle performance: ce n’erano di più tese e più rilassate, versioni fuori dall’ordinario e altre di routine, concerti che sembrano assalti e altri che parevano abbracci. I bootleg ufficiali dei Pearl Jam rappresentarono anche un momento di, diciamo così, educazione all’ascolto: che cosa rendeva speciale quella particolare Even Flow rispetto alla versione suonata pochi giorni dopo dagli stessi musicisti nello stesso tour? Com’era possibile che la stessa canzone fosse tanto diversa?

Il solo fatto che fossimo disposti ad ascoltare decine di registrazioni dal vivo di un solo gruppo dà la misura dell’investimento emotivo che mettevamo in quella musica, ripagati da una band che con ogni evidenza costruiva le scalette in base al posto in cui si trovava, agli eventi del periodo, in alcuni casi persino a quel che era accaduto in quella stessa sala da concerto anni prima. Col passare degli anni, i fan hanno cominciato a farsi un’idea persino della quantità di vino ingollato in una particolare sera da Eddie Vedder.

I Pearl Jam hanno continuato a produrre bootleg ufficiali vendendoli non più nei negozi, ma on demand e in versione digitale. Alcuni bootleg sono diventati dischi dal vivo ufficiali e cofanetti tradizionali in grado di raggiungere un pubblico più ampio. Sono stati recuperati live d’epoca, precedenti l’anno 2000. E anche se le loro esibizioni non hanno più la forza di un tempo, la filosofia dei Pearl Jam è rimasta simile: offrire l’accesso a concerti unici.

Se oggi qualcuno mi proponesse di ascoltare 40 bootleg dei Pearl Jam o 40 dischi di 40 gruppi diversi, con la prospettiva di scoprirne anche solo cinque buoni, non avrei dubbi: sceglierei la seconda opzione. Non solo perché non amo i Pearl Jam quanto li amavo nel 2000, ma soprattutto perché non voglio rinunciare all’arricchimento derivante dal contatto con un’ampia varietà di musica. Sentire l’album dei Sons of Kemet, per dirne uno, è più gratificante dell’ascolto di un concerto dei Pearl Jam del 2013 a Baltimore, Maryland (bellissimo show, tra l’altro). Voglio musica nuova, voglio stimoli nuovi, voglio essere spiazzato. E però questo tentativo di trasformare in esperienza digitale il fenomeno dei bootleg che è stato anzitutto analogico, questa immersione “in too deep” come dice la canzone m’ha ricordato uno dei motivi della grandezza di Pearl Jam: la capacità di trasformare i concerti in un dialogo col pubblico.

Mi ha ricordato pure un altro motivo che ha reso quei bootleg a loro modo rivoluzionari. Fra i gruppi d’enorme successo, i Pearl Jam sono stati fra i primi a intercettare il desiderio del pubblico di avere documenti live autentici e non artefatti come invece avveniva in un passato anche recente in cui i dischi dal vivo ufficiali non offrivano la riproduzione fedele di una serata in particolare, ma erano la ricostruzione a volte rimaneggiata in studio di un concerto ideale. I Pearl Jam invece ci mettevano dentro tutto, momenti esaltanti ed errori, performance irripetibili ed esecuzioni sottotono. Questi 186 concerti e i tanti altri che sono nei loro archivi affermano l’importanza del qui-e-ora nella musica, sono il trionfo della realtà sulla sua versione migliorata.

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