Spring Attitude, l'elettronica che vince con la mascherina | Rolling Stone Italia
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Spring Attitude, l’elettronica che vince con la mascherina

L'edizione di emergenza del festival di culto della musica elettronica italiana è un saggio su come si riesca non cambiare e vivere con serenità la musica dal vivo al tempo della pandemia

Spring Attitude, l’elettronica che vince con la mascherina

Foto: Valerio Quattrucci

Pensi Roma, aggiungi musica elettronica, e dici subito Spring Attitude. Il festival della “primavera” sonora è un’istituzione nella capitale, dall’evento culto delle origini al blob coerente – e sempre più italiano – di oggi, con line-up capaci di far ballare i devoti del clubbing e ammiccare a chi, con quegli stessi riferimenti e affini, ha costruito un pop nuovo (Myss Keta e Frah Quintale, per citarne un paio), in un ibrido fra concerto e dancefloor. Tradotto: ce n’è per (quasi) tutti i gusti. Ecco, appunto, però poi pensi 2020, pandemia, locali chiusi, Billionaire e Briatore, crisi del settore; dici che, per stavolta, l’appuntamento non ci sarà. E dici male.

Ok, la dimensione è quella lite a cui l’estate ci ha abituati, con cartellone ridotto (da tre serate a una), molti meno artisti e una location che non è né l’Ex Dogana (RIP, a proposito) né il Maxxi, ma un contingentato Teatro India – sul lungotevere, davanti al Gazometro. E però, in primis, è posto affascinante (una ex fabbrica) con spazi giusti: pur se in versione tascabile, gli organizzatori sono riusciti a non far mancare le istallazioni, i percorsi visivi e in generale quelle situazioni collaterali fra i set tipiche dell’appuntamento, in un tour de force che ieri è partito alle 17 ed è finito dopo mezzanotte, con Andrea Laszlo De Simone headliner di un cartellone ampio e profondo, relativamente al fare di necessità virtù.

Intanto, dicevamo, le opere: scelte dal collettivo Errore Digitale e messe nella zona indoor, fra sci-fi e satira, anche stavolta sono perfette per entrare nel mood dei riferimenti e staccare durante i brevi allestimenti del main stage (a proposito: hanno spaccato il minuto, complimenti), dove di fatto è concentrato il programma – risparmiando, per via dell’emergenza, il rimbalzo fra due palchi. Stavolta, insomma, la situazione somiglia più a un classico festival estivo dal vivo, prediligendo la musica suonata ai dj-set ma senza perderne in identità né strafare. Dopo il riscaldamento con Jason K a mettere i dischi, infatti, verso le sette e mezza tocca Whitemary (loop, elettronica e attitudine da popstar: un ibrido felice fra producer e cantante vera e propria) e, soprattutto, a Marco Castello. E mentre l’ultima scommessa di 42 Records – in sintesi: voce sottile ed elegante, jazz, saudade à la Selton e indie-pop – suona accompagnato da basso, batteria e tastiere le varie Torpi, Porsi e Cicciona, uscendone con un cover di Perché non sei una mela di Lucio Battisti più esplicativa di tante definizioni, Spring Attitude si conferma il solito radar, muovendosi con anticipo verso le possibili next big thing della scena.

Foto di Valerio Quattrucci

La gente sotto il palco non è ancora tantissima, in realtà, sparpagliata com’è fra istallazioni e (visto l’orario) cena, così che la vera prova anti-assembramento arriva alle 21.30, quando sale sul palco De Simone. Certo, è strano: è il primo live post-Covid a cui assisto in piedi (e credo di non essere l’unico, lì in mezzo, a provare questa sensanzion), però la vera scommessa del festival è proprio questa, ovvero stare all’aperto, tenere sempre la mascherina, mettersi a distanza e – come da slogan – “tornare a vivere la musica dal vivo” senza sedersi. Il concerto (leggi: uno degli eventi da vedere quest’anno) aiuta, perché è quello prezioso e ormai rodato con mini-orchestra (fiati, archi), prima parte dedicata all’esecuzione integrale della suite de L’immensità in maniera pressoché identica all’album, e seconda per andare a ritroso verso Uomo donna.

Nel parterre all’aperto in cui ci troviamo si prova a stare larghi (il che ha anche i suoi lati positivi: bersi una birra in pace, nella calca di una terza fila classica, sarebbe stato molto più difficile di così), comunque si canta, perlomeno quando non si resta ammaliati dal pop-progressive psichedelico e cinematografico in scena. E, anzi, è bello vedere che ci siano attenzione e calore da parte del pubblico su un artista tanto complesso, autorale, di certo non dall’ascolto facile. Lui, nel dubbio, è il più sciolto: cicca in bocca, poi camicia sbottonata; un mix nel look fra Frank Zappa e il Nanni Moretti dei Settanta; spirito naif, chiede sigarette agli spettatori e finisce per farsi un drum durante Che cosa, uno dei momenti clou della serata insieme alla coda-vortice con gocce di pianoforte e megafoni di Uomo donna, alla mezzora iniziale e a Fiore mio – durante cui ho visto pogare dei congiunti, giuro.

Metterlo in cartellone è scelta di gusto, così come aver chiamato Clap! Clap! per il set successivo (e conclusivo: ma è tutto tranne che un after), a rimarcare la bivalenza dell’appuntamento – (diciamo) cantautore da una parte, producer dall’altra – e la voglia di giocarsela su nomi attuali, ricercati e significativi per le rispettive scene, persino in un’annata così. Il set dell’artista fiorentino è un viaggio che parte dalle coordinate tribali ed esotiche dell’ultimo Liquid portraits (aprendo proprio con gli echi di Southern dub), uno dei dischi più interessanti usciti in questi mesi, e poi si disintegra in una dance da cassa dritta molto più dura – nonché, soprattutto, meno astratta e spirituale – della sua cugina da studio, della quale rimane giusto un’eco. E, mentre i visual pastellati e distorti a tema Africa di Giulia Dall’Ara fanno il resto, il pubblico rimasto in pista (circa la metà del live di De Simone) balla fino all’ultimo con mascherine in volto, tenendo le distanze, e provando a farlo, soprattutto, con naturalezza.

Una novità, insomma, oltre che una prova di civiltà. Che poi era la sponda che – immagino – cercavano proprio gli organizzatori quando hanno messo su quest’edizione d’emergenza, da seguire in piedi come sempre, e che quindi è soprattutto un saggio su come un festival con un’identità forte, in una situazione del genere, riesca a non snaturarsi e a, al tempo stesso, a mantenersi anche significativo, con nomi di culto in cartellone. Su come si riesca, insomma, a non cambiare e vivere con serenità la musica dal vivo. Anche perché ora ci aspetta un inverno drammatico, in cui mettere in piedi dei live o dei dj-set sarà un’impresa per la quale si rischia un altro bagno di sangue. E chissà che questa “primavera” romana, con l’arrivo del freddo, non metta delle idee sul piatto. Nel caso, ieri è stato bello fare da cavie.