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Se non avete mai ascoltato John Prine, fatelo adesso

Era uno dei grandi cantautori americani. Ecco 10 canzoni per entrare nel suo mondo. Sono storie di solitudini devastanti, viaggi mentali, ricordi d’infanzia. «Puro esistenzialismo proustiano», l’ha definito Bob Dylan

Se non avete mai ascoltato John Prine, fatelo adesso

John Prine nel 1975

Foto: Tom Hill/WireImage

John Prine ha scritto le sue prime due canzoni, Sour Grapes e The Frying Pan, a soli 14 anni d’età. Già allora sapeva coniugare umorismo e sentimenti come facevano i suoi eroi Hank Williams e Roger Miller. Ha continuato a scrivere mentre prestava servizio in Vietnam e lavorava come postino e lo testimoniano pezzi come Hello in There, sulla solitudine di una coppia dopo che i figli se ne sono andati, e Sam Stone, su un veterano tossicodipendente per il quale la guerra non mai finita. Scriveva per i lavoratori, i depressi, gli anziani, per chi si sentiva smarrito. Il suo stile, ispirato nei testi a John Steinbeck, era solo apparentemente semplice. Aveva molti imitatori, ma è rimasto unico.

Prine era un uomo modesto e non rilasciava molte interviste. Quella con Paul Zollo per Bluerailroad è una specie di masterclass in songwriting. «Più l’ascoltatore contribuisce al significato di una canzone e meglio è», diceva. «Deve diventarne parte, riempire gli spazi vuoti. Non dite tutto nelle canzoni, usate i dettagli solo per gli oggetti. Non so, il colore di un posacenere, la distanza da una porta. Così facendo, quando canterete di cose intangibili come le emozioni sarà l’ascoltatore a riempire gli spazi vuoti».

John Prine non ha mai scritto una canzone brutta. Eccone 10 fra le sue migliori.

“Angel from Montgomery” (1971)

Angel from Montgomery

È la canzone più celebre di Prine, il ritratto memorabile di «una donna di mezza età che si sente più vecchia di quel che è». L’arrangiamento country-rock semplice crea un bel contrasto con il testo pieno di dettagli come le mosche che ronzano attorno al lavabo della cucina o il poster del rodeo che la fa fantasticare, o ancora il modo così tangibile in cui sono descritte la crisi coniugale e la depressione di mezza età. Angel from Montgomery è diventata uno standard country ed è stata rifatta da Bonnie Raitt. La sua versione lenta e piena di soul ha enfatizzato uno dei temi della canzone, il lento dissolversi del desiderio femminile. Riatt l’ha eseguita in modo commovente all’inizio di quest’anno ai Grammy, quando Prine ha ricevuto un Lifetime Achievement Award.

“Illegal Smile” (1971)


Pezzo d’apertura del debutto omonimo di John Prine, Illegal Smile è diventato l’inno di chi fuma d’erba e questo nonostante il cantautore sostenesse che non parlava di quello. A rendere inebriante la canzone non è tanto il testo che parla della “chiave per fuggire dalla realtà” e di scontri con la legge, ma la scansione ritmica. Prince la canta come se fosse una canzone per bambini, sottolineando le due sillabe finali di ogni verso: “Ho inseguito un arcobaleno in una strada a senso unico – vicolo cieco / Tutti i miei amici sono nelle assicurazioni – venditori”. Le rime a effetto alla fine della canzone raddoppiano la meraviglia infantile: “Well done / Hot dog bun / My sister’s a nun”.

“Paradise” (1971)


È il ricordo sentimentale di un luogo e la descrizione degli effetti nefasti del capitalismo predatorio. Paradise è l’ode di Prine alla piccola città mineraria del Kentucky orientale dove si erano incontrati i genitori. «La Peabody Coal and Mining ha comprato tutta la terra laggiù e ha distrutto la città», ha detto Prine. È diventato uno standard rifatto da Everly Brothers, John Denver, Johnny Cash. «Io manco l’avrei registrata, pensavo che nessuno sarebbe stato in grado di pronunciare la parola Muhlenberg».

“Sam Stone” (1971)


Prine ha scritto questa storia straziante di un veterano eroinomane dopo il congedo. Sam Stone è subito diventata una suoi cavalli di battaglia piena com’è di passaggi da urlo come “C’è un buco nel braccio di papà dove finiscono tutti i soldi / Gesù Cristo è morto inutilmente, immagino”. Quarantasette anni dopo, Prine disse a Rolling Stone che erano i versi di cui andava più fiero. «Molti soldati sono tornati a casa e hanno cominciato a drogarsi. Ho cercato un’immagine che raccontasse tanta disperazione. Mi è venuto in mente “Gesù Cristo è morto inutilmente, immagino”. Ecco, questa è una frase che non trasmette alcun senso di speranza».

“Hello in There” (1971)


Ispirandosi alla voce di John Lennon riverberata in Across the Universe dei Beatles, Prine pensò di “urlare attraverso un tronco cavo, nella speranza che qualcuno mi sentisse”. Questa idea del desiderio di comunicare superando una qualche barriera è applicata alla vita di una coppia di anziani: l’appartamento che condividevano quand’erano più giovani, i figli che sono cresciuti e se ne sono andati (o, nel caso di Davy, è morto “nella guerra di Corea, non so ancora perché”), l’esistenza tranquilla e isolata che conducono. In perfetto stile folk, alla fine Prine si rivolge direttamente all’ascoltatore: “Se vi capita di camminare per strada e vedere lo sguardo perso di un anziano, per favore non passate oltre come se non v’importasse. Dite: ehilà, buongiorno”.

“Souvenirs” (1972)


Prine ha scritto questa splendida meditazione sulla nostalgia nella sua Chevelle del ’65, mentre andava a uno dei suoi primi concerti al Fifth Peg di Chicago. Si tratta in parte di un ricordo d’infanzia sepolto di quando pensava che suo fratello si fosse perso a un carnevale. «Pensavo di essermi inventato una melodia piuttosto sofisticata», ha detto. «Poi ho scoperto che erano gli stessi tre accordi di tutte le altre mie canzoni». Prine ha eseguito spesso la canzone con il suo partner musicale Steve Goodman (la versione definitiva è il duetto dal vivo nell’antologia Great Days) e per decenni gliel’ha dedicata. Questa storia di ricordi ossessionanti mostra il Prine sentimentale al suo meglio e contiene un neologismo, a parola boughten: “Memories, they can’t be boughten”.

“Christmas in Prison” (1973)

Christmas in Prison

Solo uno come Prine poteva scrivere una canzone che è allo stesso tempo un pezzo natalizio anticonvenzionale e una love song altrettanto originale. Christmas in Prison parla apparentemente di un carcerato che ha nostalgia di casa e si strugge per la sua bella. Prine ha spiegato che non è detto che il protagonista si trovi chiuso in cella: «È in una situazione in cui non vuole stare e desidera di essere da qualche altra parte. Per descriverlo, ho usato immagini legate al carcere». Su un valzer dolce e romantico, Prine scrive un testo assieme divertente ed evocativo. Il detenuto soffre per la sua amata e intanto accumula immagini come tacche sulla parete della cella: “Mi ricorda una partita a scacchi / Con qualcuno che ammiro / O un picnic sotto la pioggia / Dopo un incendio nella prateria”. Prine amava le feste natalizie. Quand’era scapolo, teneva in casa l’albero di Natale tutto l’anno.

“Speed of the Sound of Loneliness” (1986)

John Prine - Speed of the Sound of Loneliness - German Afternoons

Scritta dopo essere uscito da una brutta relazione, questa ballata del 1986 mostra un Prine bisognoso d’amore. «Parla di una rottura. Avevo in testa l’immagine di un astronauta degli anni ’50 con la faccia stravolta dalla forza di gravità durante un’esercitazione. Pensavo al cuore di qualcuno strappato via da quella forza di gravità». Così come Angel from Montgomery è diventata famosa nella versione di Bonnie Raitt, Speed of the Sound of Loneliness è stata rifatta con successo da Nanci Griffith, che ha incluso un duetto con Prine nell’album del 1993 Other Voices, Other Rooms. È puro Prine questo racconto su tre accordi strazianti di due amanti che crescendo s’allontanano.

“Lake Marie” (1995)


«Quello di Prine è puro esistenzialismo proustiano», ha detto Bob Dylan. «Sono viaggi mentali nel Midwest all’ennesima potenza». La canzone di Prine preferita da Dylan è un esempio brillante di quest’ultima categoria. Lake Marie combina tre storie diverse: una sull’origine dei nomi di due laghi al confine fra Illinois e Wisconsin; una su un matrimonio fallito; una su un omicidio particolarmente macabro. È un classico ed è in parte racconto popolare moderno, in parte grande canto corale. Prine ha scritto dei laghi – che sono reali, anche se in realtà uno si chiama Lake Mary, non Marie – dopo aver consultato uno storico del posto. Gli omicidi rimandano a vecchi filmati televisivi visti da bambino. In qualche modo, tutto si tiene, la luce si mescola col buio, ombre si formano accanto alle “acque placide” su cui il testo torna spesso. Nel bel mezzo di questa storia, Prine piazza un ghigno: “Molti anni dopo ci siamo ritrovati in Canada / Tentando di salvare il nostro matrimonio e forse di prendere all’amo qualche pesce”.

“In Spite of Ourselves” (1999)

In Spite of Ourselves (feat. Iris DeMent)

Questo duetto con Iris Dement fotografa una lunga relazione come solo Prine sapeva fare: è caldo, pieno di dettagli, maledettamente divertente. Lo schema è questo: lui dice una cosa, lei ne dice un’altra. Lui parla di lei che odia le uova poco cotte, disprezza il denaro e considera trite le sue battute. Lei risponde che lui beve troppa birra e ricorda la volta in cui l’ha beccato a “sniffare le mie mutandine”. Saranno in disaccordo su tante cose, ma i due personaggi conoscono intimamente le stranezze l’uno dell’altro e continuano ad amarsi. Prine ha scritto In Spite of Ourselves per il film Daddy and Them in cui interpretata il fratello di Billy Bob Thornton. La canzone era ispirata vagamente a due personaggi del film, ma il tema degli alti e bassi dell’amore è universale ed è anche il motivo per cui da qualche anno viene cantata ai matrimoni negli Stati Uniti.

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