In Inghilterra è sempre stato così: prima dei dischi di successo, prima del riconoscimento, prima ancora della voce… arriva lo Stile, con la S maiuscola. E che stile che ha Sade: distintivo e seducente in modo non convenzionale.
Negli ultimi diciotto mesi, la venticinquenne Sade (si pronuncia Shar-day) ha trasformato quell’immagine in una carriera musicale altrettanto sorprendente. Come cantante e paroliera del gruppo che porta il suo nome, ha visto il suo album d’esordio, Diamond Life, vendere oltre un milione di copie nel Regno Unito e 4 milioni nel mondo. E ora, spinta dal singolo Smooth Operator, Diamond Life sta scalando anche le classifiche americane.
A differenza dei Duran Duran, degli Spandau Ballet, dei Culture Club, degli Wham! e di altri dominatori delle classifiche britanniche, Sade rifugge eccessi come sintetizzatori, vestiti sgargianti e video sfarzosi. Lei incarna la sobrietà elegante, un’eleganza basata sulla semplicità assoluta. La sua voce vellutata e roca e la predilezione per gli abiti da cocktail neri e scollati riportano alla mente i grandi jazz club newyorkesi degli anni Trenta e Quaranta, mentre gli arrangiamenti essenziali della sua band sono più vicini al jazz che al rock & roll.
Il suo successo ha alimentato voci, soprattutto nel Regno Unito, su una rinascita del jazz. Ma Sade è attenta a non definire il suo disco un album jazz.
«Mi spaventa che qualcuno possa pensare, anche solo per un attimo, che vogliamo essere una jazz band», dice. «Perché se davvero volessimo esserlo, potremmo farlo molto meglio di come lo facciamo adesso».
Nelle foto il suo aspetto può sembrare austero, quasi altezzoso. Ma dal vivo, Sade è aperta e affabile. Il suo stile è istintivo e, anche a mezzogiorno, nell’ufficio modesto del suo addetto stampa a Londra, lontano dai fulcri della moda e della musica di Kings Road e del West End, è vestita con stile: jeans attillati e giacca di pelle nera. Non è consapevole del suo fascino, e sostiene che anche la musica del gruppo nasca senza alcuna premeditazione.
«Non ci mettiamo a tavolino a dire: ‘Ok, adesso creiamo questo suono.’ Ci viene in modo troppo naturale per intellettualizzarlo. Quando creiamo una canzone, è semplicemente… quello che succede. La nostra musica è chiaramente pop, perché è facile da capire. Tutte le canzoni che ho sempre amato – anche cose jazz – raccontano una storia, come The Inflated Tear di Roland Kirk. E Sketches of Spain di Miles Davis – ti fa sentire in Spagna. Il soul che mi piace è Sly con Family Affair, e Marvin Gaye, che racconta sempre storie semplici. È tutto semplice e senza pretese, ed è questo che per me è la musica. Deve portarti da qualche parte e muoverti in qualche modo, ed è ciò che voglio che facciano le nostre canzoni».
C’è sempre stato qualcosa di diverso in Helen Folasade Adu, nata in Nigeria. I suoi genitori si conobbero negli anni Cinquanta, quando suo padre, nigeriano, studiava alla London School of Economics. Dopo il matrimonio e la nascita di un figlio, si trasferirono a Ibadan, in Nigeria, dove il padre di Sade ottenne un incarico da insegnante e dove Sade nacque nel 1959. La relazione però non durò a lungo («Mio padre era un uomo molto difficile») e nel 1963 Sade si ritrovò in Inghilterra con la madre, il fratello e i nonni, nel piccolo villaggio di Great Hawkesley, nell’Essex – proprio in tempo per uno degli inverni più freddi nella storia britannica.
«Era tutto verde e bianco, verde e bianco ovunque», ricorda. «Non avevo mai visto la neve. Mio nonno era un po’ tirchio e non metteva il riscaldamento nella nostra stanza. C’erano stalattiti di ghiaccio che pendevano dalla condensa e uno strato di ghiaccio all’interno del davanzale. Era assolutamente terrificante».
Quando sua madre concluse gli studi da infermiera, si trasferirono in una casa propria. Ma anche quella si rivelò una sistemazione temporanea. A dieci anni, la madre di Sade sposò «un macellaio matto», e la famiglia si trasferì a Holland-on-Sea, «una cittadina balneare da cartolina, piena di barboncini e vecchiette». A quattordici anni Sade scoprì i club, il ballo e la musica soul, che divenne la sua passione costante. «Era l’unica cosa da ascoltare, l’unica che potessi amare». dice.
Amava il soul che arrivava direttamente dagli Stati Uniti, ma aveva un debole per la voce di Stevie Winwood e chiedeva sempre al DJ locale di chiudere la serata con Walking in the Wind dei Traffic.
A diciassette anni si trasferì a Londra per seguire un corso triennale in moda e design al St. Martin’s College of Art, nel West End. Contemporaneamente scoprì anche i piaceri della vita notturna della capitale. Alla fine del corso, cominciò a disegnare e vendere abiti da uomo, lavorando con margini di guadagno ridottissimi. In quegli anni, arte e musica erano più intrecciate che mai, e quando un conoscente che gestiva una band le chiese se voleva provare a fare la corista, lei accettò volentieri.
«Quando è arrivato il canto, non l’ho pensato come a una carriera», ricorda ridendo. «Non faccio l’uncinetto e non gioco a badminton, quindi ho pensato: potrebbe essere un bel passatempo!»
Il conoscente era Lee Barrett, la band si chiamava Pride. All’inizio venne rifiutata, ma non trovando nessun altro, la invitarono a unirsi. Alla fine, Barrett suggerì a lei e ad alcuni musicisti dei Pride di preparare un set tutto loro da eseguire tra un’esibizione e l’altra del gruppo principale. La band Sade fece i suoi primi passi durante un concerto dei Pride al leggendario jazz club Ronnie Scott’s di Londra. Stewart Matthewman, sassofonista e chitarrista, divenne il partner creativo di Sade quando fu chiaro che lei stava oscurando “la band madre”.
Il momento decisivo arrivò nel 1983, quando la band fu scritturata per un concerto all’Institute of Contemporary Arts. Lo show era coprodotto dalla rivista The Face, la bibbia britannica della musica e della moda. In un’epoca in cui il technopop trionfava, una Sade elegantissima, accompagnata solo da Matthewman e da una sezione ritmica, conquistò tutti con una versione raffinata e sicura di Cry Me a River: il pubblico esplose di gioia.
Nell’ottobre del 1983, Barrett firmò con la Epic. La formazione stabile comprendeva Sade, Matthewman, il bassista Paul Denman, il tastierista Andrew Hale e il batterista Paul Cooke (poi sostituito da Dave Early). Incontrarono anche il produttore Robin Millar, noto per il suo sound rilassato e arioso. L’approccio sobrio ed essenziale di Sade e Millar spiccava in un panorama pop pieno di effetti e suoni vistosi. Il primo singolo, Your Love Is King, uscì a febbraio, seguito da When Am I Going to Make a Living e dall’album Diamond Life. L’ascesa era cominciata.
Forse era solo una moda del momento, forse era davvero il Nuovo Jazz. Sicuramente era un disco di gusto, misurato – in linea con l’attitudine generale di Sade.
«È così che tendo ad affrontare le cose», spiega. «Non sono sopra le righe, non sono stravagante. Sono piuttosto sobria, e questo si riflette anche nel modo in cui canto. Non penso che per emozionare qualcuno sia necessario urlare. A volte, dentro di me, sto urlando davvero: sto mettendo tutta me stessa, sto dicendo qualcosa. Ma quando poi lo si ascolta, sembra comunque pacato. Forse un giorno, con la canzone giusta, canterò a squarciagola, ma non penso che esagerare sia il modo migliore per trasmettere qualcosa».
«Vale per tutto: abiti, design, architettura. Oggi essere eccentrici è diventato la norma: capelli in cento direzioni, di vari colori, vestiti bizzarri – sono diventati… convenzionali. Venendo da un college d’arte, ho sempre detestato chi ha l’arroganza di pensare di essere ‘diverso’ mentre fa qualcosa di completamente accettato, qualcosa di sicuro e che ha visto fare a qualcun altro. Io non ho un look eccentrico. Non mi piace apparire stravagante. Non voglio sembrare come tutti gli altri».
Questa avversione per l’eccesso e il sensazionalismo si riflette anche nella sua immagine pubblica. Fa poche interviste. Non litiga con altri artisti. E in un paese dove le popstar sono ossessionate dai tabloid, lei non compare mai nei pettegolezzi. Vive in una casa tranquilla a Highbury, a nord di Londra, con Robert Elms, giornalista, appassionato di jazz e figura di spicco della scena culturale. È passata da una notte piovosa in cui scriveva i versi di When Am I Going to Make a Living sul retro di una bolletta a una vita agiata, ma senza ostentazioni. Il 1984 è stato un anno molto positivo per Sade.
Ora è consapevole delle sfide future: «Voglio fare un disco che dimostri che abbiamo qualcosa da dire. Tutti sono molto scettici verso chi ha un grande successo subito. Voglio dimostrare a me stessa che c’è davvero qualcosa. Voglio fare un grande album dopo Diamond Life, crescere, andare avanti come band. Siamo appena partiti, abbiamo ancora molto da fare. Diamond Life è stato un successo, ma è finito. Solo adesso stiamo imparando a lavorare insieme, io sto solo adesso imparando a cantare. Ho avuto molta esposizione in un momento in cui sto ancora imparando, sto ancora mettendo i denti…».
«Ovviamente le aspettative sono altissime, per via della reazione che abbiamo avuto», riflette Sade, accendendo una sigaretta in più del previsto, «ma ora mi sento molto più sicura nella scrittura e nel canto, anche se ho ancora tanta strada da fare».
Questo articolo è tratto dal numero del 23 maggio 1985 di Rolling Stone US.
