In molti hanno scritto del nuovo album di Yung Lean, Jonatan, uscito venerdì 2 maggio per Awal Recordings. In pochi però hanno considerato nelle analisi, più o meno approfondite, un particolare fondamentale: Jonatan Aron Leandoer “Lean” Håstad è sobrio da un anno.
Anzi, da un anno e due mesi, visto che la breve ma interessantissima intervista in cui confida di non bere alcol “da 366 giorni” risale più o meno a inizio marzo. Il format in questione, che tra l’altro consiglio di seguire, si chiama Subway Takes e consiste in brevi interviste in formato verticale, perfette quindi per i vari Instagram o TikTok, girate letteralmente in un vagone in movimento nella metro di New York. Per ragioni di rumore, i microfoni vengono tenuti molto vicini alla bocca, anche se camuffati in maniera originale dalle caratteristiche tessere gialle della metro.
Fatto sta che, per via appunto del nome del format, l’intervistatore, Kareem Rahma, inizia sempre con un “What’s your take?”, ovvero “Che ne pensi?”, ma lasciando all’intervistato la totale libertà di scegliere l’argomento. Lean, con estrema sorpresa di chi lo segue da anni, alla domanda ha risposto “The party is officially over”. La festa è ufficialmente finita. “Penso che la mera Diddy-ness di tutto [sia finita]” ha proseguito il rapper svedese, riassumendo nel neologismo Diddy-ness tutto l’edonismo autodistruttivo, decadente e nel caso di Diddy anche perverso che deriva dal fare festa a oltranza, non come eccezione ma come regola. “Penso che dobbiamo far tornare di moda avere una fidanzata o un fidanzato, sistemarsi, metter su famiglia, fare cose semplici, imparare a intagliare il legno, cercare Dio. Non ci sono razze, c’è solo la razza umana.”
Senza stare a riportare per iscritto proprio tutte tutte le cose che Lean ha detto in quel minuto e mezzo (“Dobbiamo romanticizzare altre cose, come trasferirsi nel deserto o in una caverna”, seh ok Jonatan), è fondamentale per noi concentrarci su quando ammette che “stare sdraiato e vomitare tutto il tempo non è più sexy”. Ed è quello che sostanzialmente l’ha spinto alla sobrietà.
Sono sicuro che, per quanto tutti contenti per il nostro beniamino, più di un fan si sia spaventato all’idea di una sobrietà improvvisa. Sarà brutto e cinico da dire, e non voglio manco essere frainteso, ma la storia è piena di casi in cui la gente smette di creare cose rilevanti nel momento in cui si disintossica. Tricky da quando non fuma più non ha più cacciato un album decente. Stesso vale per i romanzi di Stephen King: tutti quelli famosi e venerati sono antecedenti alla scelta, più o meno risalente alla fine degli Ottanta, di smettere di pippare.
Lean però, con Jonatan, ha trovato nella sobrietà un’altra forma di trip. In termini di coesione tra le tracce è un album che non ha un senso. Ma è proprio questo il bello. Inizia con un’urlo di ragazza che chiama disperatamente il suo nome, nella prima Jonatan Intro, e poi, come se fosse un preludio partono dei violoncelli in staccato che preannunciano una nuova fase. Non solo della sua carriera, ma della sua vita.
Tornare sobrio equivale a ridare voce a tutte le parti (come si direbbe nella branca della psicanalisi che si chiama Gestalt) della propria famiglia interiore. Elementi diversi dell’io, che evidentemente sono rimasti troppo tempo sedati, sepolti sotto strati e strati di alcol e sostanze per anni, non risolvendo ma procrastinando un problema sempre più grande. Non è un caso che questo album di rinascita si chiami col suo nome di battesimo. Come se i precedenti fossero sì figli suoi, ma filtrati da un sostrato di nebbie e insicurezze che impediva tanto a noi quanto a lui di vedersi per com’è davvero. E la verità è che Yung Lean è una delle anime più creative del nuovo secolo.
L’unico modo che aveva per non farsi inghiottire nel piattume della sobrietà era imbarcarsi in un’avventura che nel 2025 fa sembrare l’Odissea un giro Alpitour: svecchiare il pop, dare per davvero un ceffone alla stagnazione che il realismo capitalista impone dando del futuro sempre e solo l’illusione.
E sticazzi se il tipo è stonato calante da sempre: vuole cantare e alla fine ci riesce anche bene. Dal grunge/shoegaze di Wild Horses al blues industrial e intergalattico di Changes (capolavoro e forse manifesto del disco), è proprio questa sua imperfezione tecnica a essere la chiave per non uniformarsi al pop asettico, perfetto, ritoccato fino al minimo dettaglio tanto da risultare tutto uguale alla fine. La voce di Jonatan invece, in questo disco più che mai, è davvero la sua, dry, con pochi effetti, così com’è uscita nel booth di registrazione.
Di Yung Lean c’è di prezioso il fatto che non gliene è mai fregato niente di ciò che pensano gli altri. Il suo primo pezzo “Ginseng Strip 2002” era diventato virale perché effettivamente era il video, girato con un cellulare, di un ragazzino che non andava manco a tempo e faceva anche un po’ di tenerezza a fare il ghetto trapper nelle vie del centro di Stoccolma. Eppure, ben presto i troll si sono fatti divulgatori e gli hater sono diventati fan. Non c’è modo di non amare Yung Lean, che con questo nuovo album finalmente si presenta per la prima volta a tutti come se stesso, Jonatan. Che rispondere, se non “molto piacere”.