Quando Brandon Flowers fu invitato a casa di Bruce Springsteen, la prima cosa che gli chiese – con grande sorpresa del Boss – fu di fargli ascoltare «l’album dei loop». Si riferiva a un disco realmente esistente, composto nel 1994 dopo che il Boss aveva scritto Streets of Philadelphia per il film di Jonathan Demme. Ora, con la pubblicazione del monumentale cofanetto Tracks II: The Lost Albums possiamo finalmente ascoltare Streets of Philadelphia Sessions, insieme ad altri sei album “perduti” che coprono oltre quarant’anni di registrazioni rimaste inedite, con particolare attenzione agli anni ’90 (solo apparentemente meno produttivi), ma anche con incursioni nei 2000, fino al 2010.
Oltre a dedicarsi in California a crescere i tre figli avuti con Patti Scialfa – per poi tornare nel New Jersey dopo alcuni anni – il Boss, stakanovista convinto, non ha mai smesso di fare musica. Solo che, per un motivo o per l’altro, molti di questi lavori non sono stati mai pubblicati. La cura maniacale con cui ha gestito la propria conversazione col pubblico (come ama spesso definirla) ha lasciato fuori moltissimo materiale. A volte perché ad alcuni progetti si sovrapponevano altre priorità (come nel caso di Twilight Hour, accantonato per dare spazio a Wrecking Ball), altre volte perché non era pienamente convinto di quei brani, oppure perché il motivo per cui erano stati concepiti non era più valido (Faithless).
Se Tracks era una raccolta di canzoni superlative, molto buone o comunque interessanti, Tracks II richiede un’altra suddivisione. Ci sono due album sperimentali di ottimo livello (LA Garage Sessions ’83 e Streets of Philadelphia Sessions), altri tre che per qualità sarebbero potuti tranquillamente uscire come gemelli di The Ghost of Tom Joad, Devils & Dust e Western Stars. E poi ci sono Perfect World e Faithless, che sono un po’ dei dischi a parte e forse non sarebbero mai usciti, se non – appunto – in una collezione come Tracks II.
Servirà tempo per ascoltarli e farli sedimentare. Considerate dunque queste prime recensioni come una guida da esplorare, correggere e – se necessario – riscrivere. A voi, dunque, una prima piccola esplorazione.
LA Garage Sessions ’83
1983Il primo dei sette Lost Albums di Springsteen è un’opera-ponte fra la crudezza di Nebraska e le hit di Born in the U.S.A., a cui abbiamo dedicato un approfondimento, visto che era il più atteso del lotto. Registrato nel 1983 nel garage della sua prima casa a Los Angeles, con uno studio domestico più evoluto rispetto all’anno precedente, segna la transizione verso un metodo solitario e sperimentale. Diciotto brani tra folk, rockabilly, tastiere 8-bit e delay ambientali: un Nebraska pop capace di evocare mondi interiori ma anche la drammaticità di un “american dream” sempre più “runaway”. Tra i migliori brani, l’intensa rilettura della presleyana Follow That Dream, Sugarland, Fugitive’s Dream e Unsatisfied Heart: canzoni che parlano di colpa, povertà, fuga e identità americana con lo sguardo sempre più affinato del racconto breve. Un disco embrionale, artigianale, fragile, attraversato da una produzione parecchio insolita. E da una domanda irrisolta: come vivere la vita pienamente pur essendo il Boss? Forse il suo disco più “indie” di sempre – come ha detto lo stesso Springsteen – non ha dato una risposta artistica a quesiti esistenziali, ma di sicuro è una vera perla.
Streets of Philadelphia Sessions
1993–1994Il secondo album in ordine cronologico del cofanetto è anche il primo dei tre appartenenti al decennio dei ’90. Le parole chiave sono due: loop e sintetizzatori, gli utensili principali di cui si serve il Boss per proseguire la vena creativa da cui è scaturita Streets of Philadelphia (canzone che gli valse un Oscar nel 1995). Nel buen retiro di Beverly Hills, Springsteen scrive una ventina di brani nel suo nuovo studio allestito da Toby Scott, lasciandosi ispirare anche dai suoni che ha intorno – l’hip hop della West Coast, anche se di hip hop questo disco non ha nulla. Per completare l’opera – che intendeva far uscire di lì a poco – si fa aiutare da alcuni musicisti della Other Band (Tommy Sims, Zack Alford e Shane Fontayne, già in Human Touch e Lucky Town). Alla fine, però, indeciso se pubblicare un nuovo album personale – il seguito ideale di Tunnel of Love e dei forse troppo bistrattati dischi gemelli del 1992 – accantona il progetto, anche perché, a livello poetico, ha un DNA piuttosto oscuro e forse verrebbe frainteso.
Se ci sono brani molto interessanti – Blind Spot è uno dei pochi a resistere alla post-produzione, Something in the Well sembra un antipasto di ciò che sarà Youngstown, We Fell Down è una ballata languida e spettrale – è anche vero che si percepisce quell’incompiutezza che lo stesso Springsteen gli attribuiva. Ma forse meno di quanto si potrebbe pensare. Secret Garden, il pezzo più noto, finirà nel Greatest Hits del 1995, rivisitato con la E Street Band, con cui il Boss torna a suonare per la prima volta dal 1988 (Human Rights Now!).
Somewhere North of Nashville
1995Se nelle sere quasi estive del 1995 Springsteen tesseva i fili intimi e cupi del folk di The Ghost of Tom Joad – l’unico album pubblicato tra il 1992 e il 2002 e il primo acustico dai tempi di Nebraska – nei pomeriggi si dedicava all’energia più fisica del country. L’idea – come accaduto spesso al Boss – era quella di realizzare un doppio album, con un lato meditativo e uno più gioioso, quasi da honky tonk bar (Repo Man, Tiger Rose). Ma non se ne fece nulla.
A Danny Federici e Garry Tallent, richiamati dalla E Street Band che nel giro di pochi anni si riunirà ufficialmente, si aggiungono vari musicisti, fra cui spiccano Soozie Tyrell al violino, il batterista Gary Mallaber e soprattutto Marty Rifkin, reduce dal lavoro con Tom Petty su Wildflowers. La pedal steel, strumento distintivo di Rifkin, conferisce un colore particolare al disco, che insiste su tematiche nebraskiane con un respiro country che anticipa The Seeger Sessions e Western Stars in cui comparirà in un’altra versione la title track. Suonare con il Beverly Hill Combo riporta Springsteen all’atmosfera della musica fatta insieme ai tempi di Born in the U.S.A. Da qui anche i rifacimenti in chiave country di Janey Don’t You Lose Heart e Stand on It, B-side rispettivamente di I’m Going Down e Glory Days. Tra i pezzi più riusciti, le ballate crepuscolari Poor Side of Town – cover del brano firmato da Johnny Rivers e Lou Adler – e You’re Gonna Miss Me When I’m Gone.
Inyo
1996–1997«Tornavo la sera in albergo e continuavo a scrivere in quello stile, perché pensavo che avrei pubblicato un seguito di The Ghost of Tom Joad, ma non l’ho fatto. È da lì che nasce Inyo. E dal fatto che in quel periodo vivevo sulla West Coast: sul Los Angeles Times si parlava ogni giorno di quel che succedeva al confine con il Messico. Era parte della tua vita». Durante il tour solista di The Ghost of Tom Joad, Springsteen scrisse moltissimo su tematiche di confine, un topos letterario che aveva già fatto capolino in Highway Patrolman e in Across the Borderline di Ry Cooder (colonna sonora del dimenticato film Frontiera di Tony Richardson), canzone a cui è sempre stato molto legato. Grazie ai suoi viaggi in moto e alla lettura di Rivers in the Desert di Margaret Leslie Davis, raccoglieva frammenti di storie ispirate all’immigrazione e alla frontiera, da sempre parte del suo immaginario. Inyo è il ponte fra The Ghost of Tom Joad e Devils & Dust (alcune canzoni del 2005 come The Hitter, Leah e Matamoros Banks provengono da queste session). Ogni traccia del disco potrebbe stare in uno dei due album. Le più originali? Quelle con band mariachi: The Lost Charro o Ciudad Juárez. Fa un certo effetto sentire Springsteen suonare come in un disco dei Calexico. Una curiosità che fa comprendere lo studio che si cela dietro Inyo: Adelita e The Lost Charro citano due testi universitari. Si tratta di The Mexican Corrido: A Feminist Analysis di Maria Herrera-Sobek e The Lost Charro di Kathleen Mullen-Sands.
Twilight Hours
2010Anche questo Lost Album rientra nella concezione dicotomica di cui si è detto. Era il 2010 e, dopo il tour di Working on a Dream, al quartier generale del Boss fervono i preparativi per The Promise, la rivisitazione di Darkness on the Edge of Town, disco che sull’altare della compattezza aveva sacrificato canzoni straordinarie. L’idea di Twilight Hours, prodotto con Ron Aniello, nasce nel contesto di un doppio album di canzoni pop romantiche, a sfioro sui laghi del melenso senza sprofondarci (un’arte complicatissima, ma qui riuscita).
Brani pensati per le radio adult pop contemporary, ispirati ad artisti come Glen Campbell, Jimmy Webb, Andy Williams e Burt Bacharach. Il primo disco, più “webbiano”, uscì solo nel 2019 (Western Stars). La parte più “bacharachiana”, ambientata in città e sobborghi anonimi, fu invece lasciata da parte. Quel senso da stazione radiofonica middle of the road si traduce qui in brani armonicamente complessi e vocalmente magniloquenti, dove Springsteen riscopre la voce che aveva ai tempi di Born to Run. Sunday Love e Late Evening sono ballate sontuose, Lonely Town è un brano-cattedrale che cresce pazientemente, Dinner at Eight è da vero crooner, Follow the Sun una gemma easy listening. C’è anche I’ll Stand By You, scritta per Harry Potter e pubblicata anni dopo nella colonna sonora di Blinded by the Light. Chi aveva amato Angel Eyes, la cover per gli 80 anni di Sinatra, potrà rifarsi le orecchie. C’è sempre stato un Boss per i cuori solitari.
Faithless
2005«Era musica commissionata per un film che, per una ragione o per l’altra, non è mai stato realizzato», spiega Springsteen. «Pare che il mondo del cinema sia così. Ma ho vissuto a lungo con quella musica, quindi, non sapendo esattamente dove sarebbe andato a finire il progetto, ho deciso di pubblicarla come disco». Scritto in due settimane in Florida, mentre seguiva i primi passi da cavallerizza della figlia Jessica, Faithless fa storia a sé nella discografia del Boss. Anche se la sua musica è stata spesso definita cinematica, ed è vero che molte canzoni del Jersey Devil sono finite al cinema, questa sarebbe stata la sua prima vera colonna sonora. Registrato fra il 2005 e il 2006, tra il tour di Devils & Dust e We Shall Overcome: The Seeger Sessions, include quattro strumentali (tra cui The Desert, con i suoi sonagli western) e sette ballate sospese tra gospel e folk desertico. Springsteen canta la fede perduta e ritrovata (Faithless), la nostalgia dell’infanzia (Where You Going, Where You From con i figli Evan e Sam) e la lotta contro il male (My Master’s Hand, che chiude anche in versione strumentale). God Sent You richiama The Rising e nel coro riecheggia My City of Ruins. Secondo Springsteen, il film doveva essere un western spirituale. Nessun dettaglio è stato però fornito, nemmeno il nome del regista.
Perfect World
metà anni ’90–2000L’unico non-album tra i dischi che compongono Tracks II è anche quello che, per struttura e spirito, si avvicina maggiormente ai quattro CD usciti nel cofanetto originale Tracks del 1998. Si tratta di una raccolta di brani indipendenti e autoconclusivi, che non formano un concept ma restituiscono un’immagine doppia di Bruce Springsteen. L’album potrebbe essere infatti idealmente scisso in due filoni: da un lato, quello del sound pre-reunion con la E Street Band e la conseguente tournée (fine anni ’90, inizio 2000); dall’altro, le atmosfere di Wrecking Ball (2012). Il trittico iniziale I’m Not Sleeping, Idiot’s Delight e Another Thin Line (con Tom Morello alla chitarra) è co-firmato con Joe Grushecky, già autore con Springsteen di Code of Silence (pubblicata nel 2003 come extra nella compilation The Essential Bruce Springsteen). È una bomba di puro rock and roll: granitico, nervoso, con l’asfalto nelle vene e il catrame nelle corde vocali del Boss. La rabbiosa Rain in the River risale addirittura al 1994 (Streets of Philadelphia Sessions) e con The Great Depression e If I Could Only Be Your Lover potrebbe candidarsi alla tracklist del disco di Easy Money e We Take Care Of Our Own. Blind Man (registrata nel 2002) è una piccola gemma gospel‑blues sull’isolamento e il desiderio di salvezza, con l’organo soul di Charlie Giordano in sottofondo. Chiude la title track scritta nel 1997 e mai pubblicata prima: una ballata che elenca piccoli miracoli quotidiani, alternativi al dolore della perdita.