Se c’è un equivalente rock delle quattro note che aprono la Quinta di Beethoven sono i power chords che danno il via a Good Times, Bad Times dei Led Zeppelin. Il motivo introduttivo della sinfonia è il suono del destino che bussa alla porta, gli accordi di quinta di Jimmy Page sono l’annuncio della calata dei barbari che la sfonderanno a calci, quella porta. È il 1969 e quegli accordi preannunciano l’arrivo della generazione di rocker più feroce, pericolosa, arrapata, rumorosa che si sia vista fino a quel momento. I Led Zeppelin supereranno Good Times, Bad Times, ma quei doppi sdeng piazzati all’inizio del debutto sono il segnale di un cambiamento epocale, dell’arrivo di una generazione che riscrive le regole.
Il primo album solista di Thomas Raggi dei Måneskin si apre con coppie di accordi staccati con l’accetta che ricordano l’intro di Good Times, Bad Times. Non può che essere una citazione voluta, forse l’evocazione degli spiriti giusti, di sicuro un ammiccamento al pubblico che apprezza la storia del rock e forse persino una novità eccitante per chi non la conosce, quella storia. Ma è anche simbolico di un modo di fare musica e di quel che è diventato un certo tipo di rock: non più evoluzione (o rivoluzione), ma manutenzione.
Non voglio, qui, paragonare Thomas Raggi ai Led Zeppelin, non sono così stupido. Ma l’intro di Getcha! che apre Masquerade è emblematico dei pregi (ci sono) e dei limiti (evidenti) della mezz’ora scarsa di musica con la quale il chitarrista si è presentato al mondo come solista. Raggi è il rock nei Måneskin, sì, va bene, ma quale rock? Ha chiamato Tom Morello come produttore e chitarrista e si sente. Ha chiamato a raccolta musicisti come Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers e Matt Sorum, ex Guns N’ Roses, co-autori come Beck (in Getcha!, che poi va diventa decisamente più funk-rock), una rosa di cantanti che va da Alex Kapranos dei Franz Ferdinand a Nic Cester dei Jet. Ha registrato il disco a Los Angeles e lo ha presentato al Whisky a Go Go con sopra e sotto al palco un sacco di bella gente. Ha anche preso lezioni di canto per interpretare da solo alcuni pezzi (non ha però una voce dall’identità marcata). Sono scelte che dicono una cosa: sono un musicista più credibile di quel che pensate, sono meno pop dei Måneskin, faccio parte legittimamente della comunità rock internazionale. O come dice lui, «mi sento come se coloro che hanno fatto la storia della musica mi stessero poggiando una mano sulla spalla, dicendomi: “Sei sulla strada giusta”».
O forse non lo è. Il problema, il primo, è che Raggi ha modellato Masquerade su stili sclerotizzati, negandosi la possibilità di fare un disco sintonizzato con la contemporaneità. È rock ridotto alla sua ombra retorica, è una festa in maschera che evoca un senso di appartenenza a una grande storia collettiva, senza però l’ambizione di dire alcunché d’originale. Cinquantasei anni dopo i power chords di Good Times, Bad Times, mezzo secolo dopo Physical Graffiti, un certo tipo di hard rock derivante dal blues si è talmente istituzionalizzato da diventare stile e non sostanza. E così quando Raggi evoca i Rage Against the Machine, i Red Hot Chili Peppers, i Muse, i Guns N’ Roses o i Nirvana riconosciamo le fonti, a volte i timbri, anche la bravura con cui lo fa, ma non ci dice nulla, non smuove niente, non sfonda porte, non ha l’impatto viscerale che questa musica dovrebbe avere. Spesso anzi suona come una versione edulcorata di quei modelli.
Non serve essere i Led Zeppelin, nessuno lo è nel 2025. Ma in un’epoca di revivescenze, nostalgie e reunion c’è il bisogno di qualcuno che cerchi di dare un senso al presente senza rifugiarsi nel passato. Basterebbe forse un cambio di prospettiva, un dizionario sonoro rinnovato, la voglia di sfidare l’ascoltatore. E invece Masquerade suggerisce l’idea sbagliata che la rivoluzione è finita da un pezzo, che l’unica possibilità che abbiamo è replicare più o meno bene le gesta dei grandi rock, manutenere un linguaggio, con l’eventuale effetto positivo di catturare l’attenzione di una fascia di pubblico che a queste cose non è mai arrivata per una questione anagrafica e perché la contemporaneità l’ha portata altrove, com’è normale che sia. Lo ha detto Tom Morello che per lui quest’album «è un’altra occasione per sostenere il rock’n’roll e dimostrare che è ancora importante. Vedo questo progetto come parte del mantenimento di questa tradizione». La parola chiave è mantenimento.
E poi, che cosa rappresenta Masquerade, che cosa vuol dirci Raggi? Qual è il suo modo di stare nel mondo? Non mi riferisco solo al significato dei testi delle canzoni che a volte sono sufficientemente vaghi da non dire alcunché. A meno che tu non sia un vero fenomeno dal punto di vista musicale, il grande rock trascende quasi sempre un puro fatto estetico. Le otto canzoni del debutto di Raggi non lo fanno mai. I Måneskin se non altro avevano un vantaggio: non hanno mai fatto grande musica, ma hanno contribuito a portare nel rock mainstream una rappresentazione del sesso in cui si riconosceva una pulsione verso la libertà e si rifletteva la conversazione sui corpi e sul genere che avveniva altrove.
Lo so che in un tempo in cui Olivia Rodrigo è considerata punk, Thomas Raggi rischia di sembrare Jimmy Page. E non c’è alcunché di imbarazzante in Masquerade, è ben prodotto, ci sono passaggi musicalmente eccitanti come la battaglia di assoli in Keep the Pack o il riff alla Jack White di The Ritz, per citarne un paio. Mancano però carisma, idee, voglia di rischiare, persino la cover di You Spin Me Round (Like a Record) dei Dead or Alive con Alex Kapranos dei Franz Ferdinand è tremendamente ordinaria. Masquerade è un disco di gente di talento senza grandi cose da dire. Queste otto canzoni non dispiacciono anche perché ci sembra di conoscerle, ma non fanno venire voglia di riascoltare una seconda volta per lo stesso identico motivo. Che peccato: Thomas Raggi non ha ancora compiuto 25 anni e già pensa al rock come revival.














