Sleep Token, la recensione di ‘Even in Arcadia’ | Rolling Stone Italia
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Sleep Token, ovvero il culto dell’anonimato e del pop-metal

È la band di cui tutti parlano. Maschere, malinconia e canzoni che passano dal prog metal all’emo alle ritmiche trap: ‘Even in Arcadia’ è un rituale dark in cui Vessel canta l’identità scissa

Sleep Token, ovvero il culto dell’anonimato e del pop-metal

Sleep Token

Foto: Andy Ford

È dal debutto del 2016 che gli inglesi Sleep Token sono una delle realtà più misteriose del panorama prog metal contemporaneo, e pure una storia di successo. Amano l’anonimato. Nascosto dallo pseudonimo Vessel e con indosso costumi elaboratissimi, il cantante ha costruito con la band un universo musicale che non può che appartenere al 21esimo secolo. Riff pesanti e batteria martellante sono elementi distintamente metal, eppure la loro musica prende spesso direzioni inaspettate e vira verso tonalità inattese. Racchiuderli in una categoria non è semplice.

Even in Arcadia è il loro quarto album e non solleva il velo di mistero che li avvolge, ma anzi aggiunge nuovi strati di complessità e di profondità esistenziale alla loro mitologia. “Fermerai quest’eclissi dentro di me?”, chiede Vessel in Look to Windward. È la canzone che apre il disco ed è un viaggio sonoro in continua metamorfosi: synth metallici, archi, ritmica trap, pianoforte drammatico e infine un’esplosione di chitarre distorte. La band mette subito in chiaro cosa aspettarsi: l’inaspettato.

Il viaggio prosegue con Emergence in cui si alternano atmosfere eteree e arpeggi folli per poi finire in mezzo a una tempesta di chitarre squarciata da parti vocali celestiali. C’è persino un assolo di sassofono notturno e solitario. In Provider, una ballata d’amore tormentata, Vessel promette che “posso darti quel che desideri”, ma lo fa in un turbinio di riff caotici.

Altri pezzi raccontano le contraddizioni della notorietà nel 21esimo secolo. Caramel, ad esempio, è una riflessione sulla fama e sull’identità fatta da uno che cela la propria identità dietro a una maschera. “Continuerò a ballare seguendo il ritmo / Il palco è una prigione, un bellissimo incubo”, canta Vessel tra suoni da carillon nel passaggio del disco in cui si mette più a nudo.

Sleep Token - Damocles

Momenti del genere fanno capire che Vessel è sostanzialmente un balladeer. Passa dai sussurri ai falsetti con una versatilità impressionante, come nella title track dove usa il registro canoro più alto o in Damocles, sorta di piccolo trattato sull’ansia creativa. Qua e là il canto può ricordare quello di Dan Smith dei Bastille, il che apre la musica degli Sleep Token ad altri stili ancora come avviene in Past Self col suo rullante trap.

L’album si chiude con Infinite Baths, uno dei pezzi più spogli e crudi. Su un tappeto d’elettronica gelida, Vessel canta con una chiarezza di pensiero che in altre canzoni non aveva: “Ho lottato a lungo per essere qui / Non tornerò più indietro”. È un specie di mantra e, perché no, un manifesto per gli Sleep Token e per la loro idea di rock in continua evoluzione e potente dal punto di vista sonoro ed emotivo.

Da Rolling Stone US.

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