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Questi matti sono gli Avengers della musica corale

Si chiamano Roomful of Teeth, sono americani, hanno pubblicato un album in cui contribuiscono a ridefinire quel che è possibile fare con le voci. C’entrano Whitman, il Vangelo e i disturbi d’ansia

Foto press

Sentite questa. Un coro cerca di cantare un serie di consonanti: “N th bgnng wz th wrd, nd th wrd wz wth gd, nd th wrd wz gd”. Un altro coro risponde con le parole del Canto della terra che ruota di Walt Whitman intonato su una melodia ispirata a una messa cinquecentesca del fiammingo Josquin Desprez: “Credevi che quelle fossero le parole, quelle righe verticali? Quelle curve, angoli, puntini? No, quelle non sono le parole, le parole sostanziali sono nella terra, nel mare. Si trovano nell’aria, si trovano dentro di te”.

È un passaggio di Rough Magic, il nuovo album degli americani Roomful of Teeth, uno studio fra erudizione e immaginazione di quel che è possibile fare con voce e parole, senza musica. In un certo senso, è un viaggio psichedelico in cui i significanti vagano alla ricerca di significati sfuggenti. È un disco sulla magia del linguaggio e sulle potenzialità del canto nel ventunesimo secolo. Se non avete mai sentito prima qualcosa del genere, potrebbe farvi cambiare idea sulla musica vocale portandovi in un territorio inesplorato, che è lontano dal canto sacro, da quello operistico, dai gruppi vocali di derivazione jazz, pur comprendendoli tutti. Un canto che prevede una definizione aggiornata di bello che contempla le disuniformità.

Il pezzo sulle consonanti s’intitola None More than You. Come tutte le composizioni di Rough Magic, è stata scritta per e con i Roomful of Teeth (e in questo caso anche per il Dessoff Choirs). È l’omaggio della compositrice Eve Beglarian a Whitman nel bicentenario della nascita caduto nel 2019. Prende spunto dal passaggio di La malattia mortale in cui Kierkegaard afferma che “la necessità è da paragonare alle consonanti: per pronunziarle ci vuole la possibilità. Se manca questa, se un’esistenza umana è stata portata al punto da non avere possibilità, essa è disperata e lo è in ogni momento in cui le manca la possibilità”. È un’idea che Beglarian traduce chiedendo ai Roomful of Teeth di cantare solo le consonanti dell’inizio del Vangelo secondo Giovanni (“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”), un compito impossibile e disperato.

Ha ragione chi scrive che i Roomful of Teeth «smantellano allegramente la definizione tradizionale di canto d’insieme» (NPR). Sono colti, ma scordate il bel canto, questi mescolano una gran varietà di linguaggi musicali, da quelli d’origine folk all’avanguardia del ventunesimo secolo, usano tecniche che prendono da ogni tradizione del mondo senza farsi venire patemi d’animo da appropriazione culturale, hanno una cultura accademica e possono contare collettivamente su qualcosa come cinque ottave di estensione. Sono gli Avengers della musica vocale. Guidati da Brad Wells e Cameron Beauchamp, che si dividono il compito di direttori artistici, comprendono talenti come Caroline Shaw, cantante, violinista e compositrice a cavallo fra musica colta e popolare, capace di scrivere musica vocale da Pulitzer (la strabiliante Partita per 8 voci interpretata su disco proprio dai Roomful of Teeth), comporre quartetti d’archi, collaborare con Kanye West. In un certo senso, i Roomful of Teeth sono un esperimento vivo sulle potenzialità della voce e sull’abbattimento delle barriere stilistiche. Essendo dannatamente bravi hanno un pubblico dannatamente piccolo.

In un mondo in cui non devi ascoltare con attenzione alcunché per capirlo, perché tutto dev’essere trasparente, accessibile e all’occorrenza memabile, i Roomful of Teeth fanno parte d’una tradizione musicale che ti costringe a sentire con cura e persino a cercare significati in quel che fanno. Lo sforzo è ripagato anche se al primo impatto il loro stile può risultare spiazzante. Possono anche risultare respingenti come nell’attacco di Psychedelics, la composizione in tre parti di William Brittelle che apre Rough Magic con una serie di vocalizzi tra il surreale e l’alieno che sembrano assemblati in modo casuale da tanto sono spiazzanti. «Lo scopo» ha scritto Brittelle, altra figura importante nella definizione di una musica genre fluid adatta ai pubblici contemporanei più curiosi «era sfidare in modo spavaldo la nozione di ciò che può essere un pezzo corale di lunga durata, sia in termini di esecuzione che di argomento. La voce umana è uno strumento magicamente flessibile, molto più di uno strumento che puoi tenere in mano o dentro cui soffi. In un certo senso, ha possibilità illimitate, specie quando si lavora con gente dotata di grande tecnica e senso dell’avventura come i Roomful of Teeth».

Attraverso passaggi bruschi tra vocalizzi jazz, armonie soavi, lallazioni, picchi nel registro più alto, grugniti, parti pitchate, canto operistico e momenti estatici, Psychedelics ricostruisce l’esperienza di un esaurimento nervoso e al tempo stesso evoca lo stato apocalittico in cui versa il mondo. Porta in una dimensione alterata o onirica ed è quindi un pezzo a suo modo psichedelico, come suggerisce il titolo. Se The Isle di Shaw prende spunto dalla Tempesta di Shakespeare presentando «for fun» una progressione di 24 accordi comprendente tutte le triadi maggiori e minori del sistema temperato occidentale (prendi nota Ed, con roba del genere nessuno ti potrà mai portare in tribunale), Bits Torn from Words di Peter S. Shin evoca con gorgheggi impossibili ispirati alla tradizione coreana del pansori il disturbo d’ansia generalizzata, con tonalità traballanti che esprimono l’insopprimibile desiderio di dire e d’essere ascoltati, in pratica un great gig in the sky in una sala di conservatorio.

Quando pensi che non uscirai vivo dal gioco di consonanti di None More than You, le voci dei cantanti del Dessoff Choirs si mescolano con quelle dei Roomful of Teeth ed è come se li aiutassero a passare dallo stato di necessità, vale a dire la dizione scomposta, a un senso di possibilità senza limiti. Si consuma in cuffia una lotta per trovare le parole, una piccola parabola sul linguaggio e la ricerca di senso. Si finisce cullati da una musica quasi trascendente. “Nessuno più di te è il presente e il passato, nessuno più di te è l’immortalità”, recita un canto che sembra dissolversi in vocalizzi che sembrano galleggiare nell’aria. È un momento di stasi irreale che vorresti non finisse mai. Rough Magic è così, è ansia ed estasi, nella sua originalità senza compromessi dice cose su di noi, è sovrannaturale nelle esecuzioni e umanissimo nei temi. Forse Whitman aveva previsto i Roomful of Teeth quando scriveva che “i corpi umani sono parole, miriadi di parole”.

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