Angelina Mango, la recensione di Poké Melodrama | Rolling Stone Italia
Una drama queen in sala

‘Poké Melodrama’, la bella confusione di Angelina Mango

Dopo Sanremo ed Eurovision era chiamata a confermare col primo album quel che di buono è stato detto di lei. Ci riesce nei pezzi autobiografici intensi e nelle smattate in cui balla sui traumi, meno quando vien fuori il desiderio di essere come tutti

‘Poké Melodrama’, la bella confusione di Angelina Mango

Angelina Mango

Foto: Andrea Bianchera

Se dovessi scegliere il momento in cui Angelina Mango m’è parsa qualcosa di più della cantante di “come se-, come se-, come sere d’estate”, non più la preferita dal pubblico vociante di Amici ma una che usciva dai confini del carinismo che avvelena il pop italiano, direi che è stato una quarantina di secondi dopo la prima apparizione a Sanremo. È stato cioè quando ha intonato la parte melodica di La noia, il canto esistenzial-pop alla Rosalía che inizia con “muoio senza morire”. Lì m’è sembrato che ci fosse almeno in potenza qualcosa di diverso, di più intenso.

In molti passaggi di Poké Melodrama la voce di Angelina Mango ha quella stessa nota indocile e inurbana, persino volgare, e perciò suona bene, viva, reale. Non è roba che tiri fuori a comando, ce l’hai o non ce l’hai, la maggior parte dei cantanti pop italiani non ce l’ha. Quel che dà fastidio a molti di Mango è anche il suo bello, il voler essere sfacciatamente pop e volerlo senza misura, né grazia. Te lo sbatte in faccia. Pur coi suoi limiti, e ce ne sono, nella sua bella confusione Poké Melodrama fa intravedere la possibilità che si possa fare pop italiano in modo lievemente diverso dal solito, che ogni tanto vengano fuori talenti come lei a cui il Signore dei dischi (cit. Skiantos) concede qualche buona canzone, non tutte ma qualcuna sì.

Fino a ieri aveva pubblicato qualche singolo, l’EP d’esordio da cantautrice dalla scrittura acerba Monolocale e quello da aspirante popstar che è Voglia di vivere, pieno di canzoni e produzioni modeste. Questo è il suo primo vero album ed è a un altro livello nonostante si perda un po’ verso la fine e nonostante la banalità di certi testi. Una delle cose belle di Poké Melodrama è il suo rivelarsi canzone dopo canzone romanzetto di formazione ballabile, autobiografia colorata, mai malmostosa, intensa il giusto d’una ragazza cresciuta a Lagonegro, in Basilicata, con un padre morto quando lei aveva 13 anni, un fratello con cui immaginare d’essere nelle Cronache di Narnia, i casini nella testa tipici delle adolescenti, una vita da capire e da inventare. E che tutto ciò sia espresso con una voce sufficientemente originale da resistere almeno un po’ all’omologazione a cui vanno incontro tutti i cantanti pop italiani che vogliono ritagliarsi una fetta del tortino di Spotify.

Poké Melodrama non è perfetto, ma è perfetto per quest’epoca di album-playlist. È scritto da quasi 30 autori, compresa Mango, e confezionato da 11 produttori. È vario e difatti s’intitola così perché «come un poké mette assieme molti ingredienti, è eterogeneo, va in tutte le direzioni e questo perché quando entro in studio non ho mai un obiettivo, lascio che la musica mi porti ovunque e quindi l’unico modo per essere coerente era essere incoerente» nelle scelte stilistiche.

Più del poké apprezzo il melodramma (ma con un pizzico d’ironia, “melodrama meno dramma”), o meglio, l’intensità popolaresca di certe interpretazioni. «Canto come parlo», mi dice Angelina quando la incontro brevemente una settimana prima dell’uscita del disco e va bene così, specie se l’enfasi è controbilanciata da strutture musicali mosse come quella di Gioielli di famiglia o dalla punteggiatura vocale estrosa di Una bella canzone, scritta e prodotta con Okgiorgio. Ci sono anche quattro feat, malattia endemica del pop italiano. Marco Mengoni fa il suo e lo fa bene nel duetto Uguale a me, Bresh funziona in un pezzo un filo risaputo che sembra registrato dal vivo in studio, voci, chitarra e basso. Dani Faiv e VillaBanks sono presenti nella seconda parte in due canzoni modeste da cui il talento di Angelina esce normalizzato e allineato con le produzioni odierne. Se si fosse spinto l’acceleratore sulla ricerca d’un suono più originale mettendo un paio di pezzi in meno, Poké Melodrama sarebbe stato meglio di com’è.

In canzoni come La noia, Melodrama o Crush emergono i suoni che Angelina chiama «materici, non so come spiegartelo, quelli che li ascolti e puoi quasi vederli, come quando per fare una ritmica abbiamo usato il suono della catena di una moto su una padella oppure per Melodrama ho agitato un pacco di pasta. Lo studio è un parco giochi». È la parte diciamo così folk. È un folk beninteso geo-delocalizzato, una specie di folk immaginario e globalizzato, da parco giochi appunto, dove le acque dei Caraibi bagnano il Medio Oriente, è il folk di un novunque. Non viene, assicura Angelina, dall’ammirazione per Rosalía o da altre reference che di certo sono state prese in considerazione facendo il disco. Mango non ha una tradizione forte in cui riconoscersi, da studiare, da modernizzare come il flamenco per la spagnola. «Questa cosa» mi dice «viene dal mio gusto personale, dai suoni mediterranei, dal posto in cui sono cresciuta, dalle tarantelle che sentivo alle feste di piazza».

Chiedetele come ci è arrivata partendo dalle canzoni da cameretta di Monolocale e vi dirà che «ho imparato ad ascoltare gli altri, pure a rubare dagli altri, cosa che ho fatto nell’ultimo anno andando in studio e facendo tante session, imparando cose a livello tecnico-musicale perché tutto quel che faccio, lo faccio da autodidatta, a orecchio». La cosa, par di capire, non deve far sottovalutare il segno che ha lasciato nel disco di cui è direttrice artistica con Giovanni Pallotti. «In studio sono una rompiscatole, i miei musicisti mi odiano, ma questa cosa è fondamentale. Scrivo da sola e con altri melodie, testi, canzoni. Sono stata presente in tutte le fasi, dalla scrittura fino agli arrangiamenti e alla scelta dei suoni e dei musicisti».

Nel caso vi chiediate se canta del padre, la risposta è sì, eccome. Ricordo ai tempi di Monolocale la cautela con la quale si era pregati d’affrontare l’argomento. Comprensibile, sei figlia d’arte (doppia, giacché la madre è Laura Valente) e vorresti farti strada per quella che sei, non per quel che han fatto i tuoi. Forse perché Pino Mango non è un personaggio ingombrante come un De André, Angelina è riuscita fin da subito non solo a smarcarsene, ma ad avere un rapporto sano col suo cognome.

A Sanremo ha cantato La rondine, uno dei momenti più intensi del Festival, e nell’album non c’è, sarebbe stato un bel finale al posto di Another World. Affronta comunque l’argomento spiegando (anzi, cantando, perché “non so parlare molto bene quindi suonerò”) che le storie famigliari ti possono soffocare come gioielli di famiglia che ti s’impigliano al collo. In Edmund e Lucy, melodramma per piano e voce rotta messo in musica col fratello, canta in un crescendo drammatico del “troppo poco tempo” passato col padre, in Fila indiana se la prende con quelli che “cercano il veleno nella spazzatura fuori dalla porta della nostra casa” e “trovano soltanto 400 mozziconi di ospiti impegnati ad abbracciare mamma” dopo la morte del marito.

Da questo poké di cose e musiche, di pezzi tendenza Rosalía e altri da cantautrice tradizionale, da questo mix di festa di piazza e aspirazioni internazionali, di momenti eccitanti e canzoni dimenticabili vien fuori il carattere irrequieto della ventitreenne a cui piace smattare in canzoni ballabili con testi-slogan molto pop in cui si passa in un batter d’occhio dal trauma in corso di elaborazione al pensierino post adolescenziale sull’amore. Certi momenti euforici hanno qualcosa d’infantile e non credo sia un caso e non credo sia un male. Poké Melodrama è il disco di una che non ha fretta di crescere. Di quell’età ha la vitalità senza freni e la gioia irrazionale che, mi rendo conto, può tenere lontani gli over-qualcosa. Sono bambini Edmund e Lucy, ovvero Angelina e il fratello Filippo. È una bambina la protagonista di Melodrama che balla nel salotto di casa e cerca la sua strada. Lo è anche la seienne di Smile che un giorno ha avvicinato la cantante e le ha detto candidamente “lo sai che anche mio padre sta nel cielo come il tuo?”.

Dietro l’ammucchiata d’autori e produttori, l’estetica costruita con cura e la fama di massimo talento in ascesa del nostro pop, mi pare ci sia una cosa bella e cioè la stranezza e quindi l’unicità di Angelina. Più vien fuori, più Poké Melodrama funziona. Pensateci, la musica migliore raramente la fa chi è stato il più popolare della scuola, i tipi più interessanti non sono mai quelli che considerate perfetti, sono invece quelli a cui tocca fare i conti con qualcosa. Lei dice che questo disco la rappresenta perfettamente. Io credo, voglio credere che lei sia più grande di questo disco, lei total, l’album parcial.

E poi c’è la copertina. Se è vero com’è vero che sul palco e nei video la sua musica passa anche per il suo corpo, vuol dire che passa per il suo aspetto, la sua bellezza e le sue imperfezioni, il modo spudorato di porsi che viene sottoposto al giudizio delle persone e che alcuni trovano intrigante e altri respingente. È vero che Angelina sa come farsi voler bene, ma per rendersi conto delle reazioni che suscita basta aprire il suo profilo Instagram e leggere certi commenti gratuiti e denigranti che gridano vendetta. Mi pare che sotteso al disco ci sia anche questo tema, la diversità irriducibile che mi auguro rimanga tale.

«Il problema» mi dice Angelina «è che gli artisti vanno a cercarsi i commenti brutti, anch’io l’ho faccio e non mi fa bene, ma il giudizio di cui ho paura è il mio». E difatti ci ha messo un po’ prima d’accertarsi. Questa cosa la combatte in modo controintuitivo: «Più non mi piaccio e più mi metto a ballare in culotte nei video. È una terapia d’urto. Mi piace che si veda tutto, anche l’imperfezione, sia quando scrivo, sia quando mi mostro. Certe mie fragilità non mi piacciono, ad esempio il fatto di essere molto dipendente dagli affetti o la paura di diventare adulta. Le metto nelle canzoni perché al pubblico va detto tutto, lo sento come un dovere. E se non mi piace qualcosa del mio corpo», dice prendendo in mano una cartolina con la copertina dell’album, «al posto di nasconderlo io lo mostro. Perché fa bene a me e alle persone che si sentono imperfette come me».

Oggi il pop è anche questa roba qua e Angelina Mango è nata per farlo. Ora viene la parte difficile: partire dalle parti migliori di questo disco, esaltarne l’alterità con le scelte, la cura, le canzoni, il pensiero musicale, la sensibilità, l’immaginazione. E non cedere al desiderio di essere come tutti.

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