Nessun tributo può contenere la grandezza di Neil Young: la recensione di ‘Heart of Gold’ | Rolling Stone Italia
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Nessun tributo può contenere la grandezza di Neil Young

Ci provano Eddie Vedder, Fiona Apple, Brandi Carlile, Steve Earle, Courtney Barnett e altri nel primo volume di ‘Heart of Gold’, tra reverenza (tanta) e reinvenzione (poca)

Nessun tributo può contenere la grandezza di Neil Young

Neil Young

Foto: Joey Martinez

Neil Young non è solo uno dei grandi songwriter del nostro tempo, è anche uno dei più omaggiati. Non stupisce che a distanza di decenni continuino a uscire tributi in suo onore. Il primo, storico, è stato The Bridge: A Tribute to Neil Young. Era il 1989 e una schiera di pesi massimi del rock alternativo, da Nick Cave e i Flaming Lips ai Pixies e ai Dinosaur Jr., dimostrava di amarne lo spirito libero tanto quanto i classici anni ’70. In uno dei momenti più alti del disco, i Sonic Youth riprendevano Computer Age dal controverso e all’epoca scandaloso disco synth rock Trans.

Ora è il turno di Heart of Gold: The Songs of Neil Young Part I, il cui ricavato andrà alla Bridge School, la scuola per ragazzi con disabilità che Young supporta da sempre. Si parte alla grande con Brandi Carlile che incanta con una versione piena di grazia di Philadelphia. La canzone tratta dalla colonna sonora del primo grande film di Hollywood sull’AIDS è giustamente interpretata da un’artista da sempre schiarata in difesa dei diritti LGBTQ+. È quel che i tributi degni di questo nome dovrebbero fare: mostrare che la musica di un artista arriva là dove non ti aspetti di trovarla.

Non è l’unica versione che aggiunge qualcosa al senso delle canzoni di Neil Young. Fiona Apple si diverte a rifare Heart of Gold in versione diciamo così art-cabaret, Stephen Marley porta Old Man nei territori del reggae, Sharon Van Etten smonta e ricompone la psichedelia hippie di Here We Are in the Years, dal debutto dell’artista del 1968, trasformandola in una ballata indie. Poi ci sono Michael McDonald e Doobie Brothers che con Allison Russell rifanno Comes a Time e i My Morning Jacket che jammano con la Preservation Hall Jazz Band sulle note Like a Hurricane, anche se l’abbinamento tra rockettone e fiati non gira alla perfezione. Il pezzo più potente lo porta Chris Pierce, che rifà Southern Man strizzando l’occhio alla formidabile versione di Merry Clayton.

Buona parte del disco resta fedele al Neil Young che tutti amano, da una parte l’eroe del classic rock e dall’altra il cantautore folk-rock. E in certi momenti il risultato è notevole, come quando Courtney Barnett reinventa col suo sarcasmo sornione Lotta Love in equilibrio tra l’originale e la versione che Nicolle Larson ha portato in classifica nel 1978. Altrove, il tributo è semplicemente godibile e solido. Steve Earle rifà Long May You Run in chiave country-rock, Eddie Vedder tocca corde profonde con una The Needle and the Damage Done acustica, i Mumford & Sons si rifugiano nella malinconia di Harvest.

Needle and The Damage Done

Insomma, non tutte le interpretazioni danno l’impressione di approfondire il senso delle canzoni in modo indimenticabile, ma nessuna ne tradisce lo spirito, ma è anzi un mixi di reverenza dell’originale e lieve reinvenzione. La Part II è in arrivo e scommettiamo che varrà la pena ascoltarla.

Da Rolling Stone US.