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Meglio Robert Plant che non smette mai di cercare di certi miti imbalsamati

La recensione del primo album coi Saving Grace. A 77 anni, il “dio dorato” continua a interrogare la tradizione e a cercare connessioni con un repertorio spesso lontano nel tempo, ma vicino alla sua sensibilità e alla sua età

Foto: Tom Oldham

Continuiamo a lamentarci del fatto che il rock è diventato un Paese per vecchi e non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati ad assistere all’ultima parte di carriera di gente come Robert Plant. Ascoltando il suo ultimo album, il primo in compagnia dei Saving Grace, mi sono ritrovato a pensare al grande paradosso del fan che passa il tempo a immaginare come si sarebbe potuta evolvere la carriera di artisti scomparsi in giovane età e poi pretende che quelli sopravvissuti si ripetano all’infinito.

È dalla fine del secolo scorso, quando ha avuto fine il secondo sodalizio con Jimmy Page, che il fan medio passa il tempo a rimuginare e a indignarsi perché Robert Plant non ha voluto continuare su quella strada, che a molti è parsa come la naturale evoluzione dei Led Zeppelin. O perché si ostina a reinventare i brani della band nei tour che, con regolarità, lo portano in giro per il mondo da decenni. La carriera di Robert Plant, insomma, viene spesso accompagnata in modo ingiusto da una domanda ormai logora: perché non canta e non scrive più come faceva con i Led Zeppelin?

Aspettarsi che un ultrasettantenne riproponga ciò che creava a 20 anni, va da sé, non ha alcun senso. E la cosa è ancora più paradossale nel caso di Plant, che non ha mai vissuto di nostalgia o di autoimitazione ed è stato capace invece di trovare forza nella costante reinvenzione e nel rifiuto categorico di cliché triti e ritriti. Detto ciò, c’è un filo evidente che attraversa tutta la sua storia musicale: dalle esplorazioni acustiche e folk di Led Zeppelin III alla rilettura essenziale del repertorio zeppeliniano con Jimmy Page fino all’intreccio di folk, blues e radici americane che caratterizza i suoi album dall’inizio del nuovo millennio. Saving Grace non rappresenta quindi una rottura, ma la naturale prosecuzione di un percorso, la testimonianza di un artista che non ha mai smesso di interrogare la tradizione, piegarla al presente e renderla ancora vitale.

Per farla breve, siamo sempre così impegnati a chiederci perché il vecchio Percy si è allontanato così tanto dagli Zeppelin da non comprendere che ne ha attualizzato costantemente una parte, quella folk acustica per intenderci. In parte perché, come dice da anni rispondendo alle solite domande dei giornalisti, passare l’anzianità a fare gridolini e allusioni sessuali lo imbarazzerebbe non poco. Ma anche perché lui e Page hanno sempre cercato una sorta di formula alchemica per unire il blues e il folk delle origini, le loro origini britanniche e la musica mediorientale per dare vita a una musica in grado di unire culturalmente più continenti possibili. È come se Plant si fosse allontanato più da Jimmy Page e dai dolorosi ricordi dell’ultima parte della sua vita nei Led Zeppelin che dall’idea di musica che aveva in mente quando, col chitarrista, si recava in Marocco o nei meandri dell’America rurale per carpirne i segreti.

In Saving Grace questa continuità è evidente fin dai primi ascolti. Brani come Chevrolet o Too Far from You riportano alle atmosfere folk & roots e hanno la stessa urgenza nel riscoprire e rielaborare le radici popolari del rock che Plant aveva quando era un ragazzo che sognava di diventare una star. Non è un ritorno al passato, ma un modo di riaffermare un’identità, visto che oggi Plant canta con un registro più caldo e narrativo, capace di dare nuova vita a melodie che sembrano senza tempo.

La stessa continuità lo porta a includere la cover di Everybody’s Song dei Low, particolarmente significativa perché non è la prima volta che Plant attinge al repertorio della band di Duluth: già sull’album Band of Joy aveva reinterpretato Monkey e Silver Rider, mostrando un’attenzione sincera e costante per il loro minimalismo emotivo e spirituale, che si sposa alla perfezione con quello che è oggi l’ex frontman degli Zep. Questo legame dimostra che Plant è costantemente alla ricerca di connessioni profonde, in questo caso con un gruppo che ha saputo tradurre in musica il silenzio, la fragilità e la trascendenza, elementi che risuonano fortissimi in Saving Grace.

Altri momenti del disco tra cui Ticket Taker rivelano la continuità con la ricerca avviata in lavori solisti come Dreamland e Carry Fire. Torna l’intreccio di folk anglosassone e radici americane che negli ultimi vent’anni ha definito la sua cifra artistica, arricchito ora da un respiro corale e da arrangiamenti più essenziali. Quasi a ribadire che certi atteggiamenti da rockstar sono finiti per sempre, Plant raramente si prende la scena, condividendo il più delle volte la voce con Suzi Dian e talvolta cedendole completamente il microfono. E in Soul of a Man di Blind Willie Johnson, forse il pezzo migliore del lotto, lascia la voce principale al chitarrista-banjoista Matt Worley, tenendo per sé i controcanti.

Mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche inedito del gruppo, perché dopo averli visti più volte dal vivo la sensazione è che questa sia una band in grado di far uscire il meglio da un autore poco prolifico come Plant. Ma è bello immaginare che Saving Grace sia l’inizio di un percorso simile a quello di fine carriera di Johnny Cash, il cui spirito peraltro fa capolino qua a là nel disco. È un album che non rinnega nulla del passato, ma lo rielabora con maturità e coerenza e dimostra che Plant ha scelto di invecchiare senza perdere la sua curiosità, fregandosene del mito. La sua voce non vive più di virtuosismi, ma della capacità di raccontare e di creare ponti fra tradizioni lontane. Un modo per ribadire, oltre mezzo secolo dopo i Led Zeppelin, che forse la vera grandezza sta nel non smettere mai di cercare.

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