Mannequin Pussy, la recensione di ‘I Got Heaven’ | Rolling Stone Italia
Eat My...

Le leggi del desiderio secondo i Mannequin Pussy

Disco nuovo, suono nuovo. In ‘I Got Heaven’ la band americana mischia il suo solito punk-rock con strati di synth. Scopo: immergersi nelle profondità delle pulsioni umane e raccontarle senza filtri

Le leggi del desiderio secondo i Mannequin Pussy

Mannequin Pussy

Foto press

Sono passati cinque anni da quando i Mannequin Pussy hanno pubblicato Patience, prova provata della versatilità e dell’intensità di cui sono capaci questi punkettari from Philly. L’inno alla fine di una relazione Drink II e le urla di Cream dicevano d’una band che osava avventurarsi oltre i peggiori bar di Fishtown per scrivere pezzi con un bello spessore emotivo.

Da allora i Mannequin Pussy – vale a dire Marisa “Missy” Dabice alla voce, Kaleen Reading alla batteria, Colins “Bear” Regisford al basso e la new entry Maxine Steen a chitarra e tastiere – hanno soddisfatto la voglia di musica dei fan con l’EP Perfect del 2021. Ora è arrivato I Got Heaven ed è chiaro che sono passati a un altro livello integrando suoni di synth e sensibilità punk. Lo si capisce, ad esempio, ascoltando cla anzone che dà il titolo al disco, un attacco rabbioso all’ipocrisia cristiana che diventa una specie di mantra sull’amore per sé stessi, con Dabice che ringhia: “E se fosse proprio proprio Gesù a leccarmi la fregna?”

La rabbia era il tema centrale di Patience e del precedente Romantic. Ora la band la usa per esplorare le profondità di condizioni come solitudine e desiderio. «I Got Heaven rappresenta la voglia di qualcosa di nuovo ed eccitante», ci hanno detto l’anno scorso. «C’è una sensazione diffusa di desiderio e di eccitazione».

Uno dei pezzi migliori del disco s’intitola è Loud Bark e si muove sapientemente tra rabbia e lussuria, con Dabice che dichiara con ferocia fin dalla prima frase che “non c’è un solo figlio di troia che abbia cercato di rinchiudermi e che sia riuscito a mettermi il collare al collo”. Su un riff grungy, Dabice riferisce il suo contraddittorio bisogno di essere sia adorata che temuta (“Sono uno spreco di donna, ma ho il sapore del successo / Tengo tutto lo zucchero dove so che ti piace di più”) in una canzone che si sviluppa in un crescendo assordante, con un ritornello urlato.

Ok? Ok! Ok? Ok! e Aching sono belle selvagge. Nella prima, è Bear a cantare, anzi ad urlare dello stato di merda del pianeta combattendo col suono della batteria di Reading. Si sentono, qui, le radici punk dei Mannequin Pussy che creano un bel contrasto con linee di synth di Steen. Le chitarre morbide di Nothing Like e Sometimes, pezzi degni della colonna sonora d’una rom-com anni ’90, aggiungono un altro strato al sound del disco.

Dall’album vien fuori tutta la forza dei testi. Fa strano sentire in un disco del genere le parole d’amore di Tell Me (“La luce del giorno porta rivelazioni sulle tue mani, sulle tue labbra, sul tuo cuore”), ma in fin dei conti ci sta, sembra quasi una ricompensa dopo un viaggio tanto intenso. La voglia di tenerezza emerge anche in Split Me Open: “Sono preoccupata, ti voglio con la forza di mille soli che bruciano tutti assieme”.

Pare sia stata scritta dopo un trip da acido e ricorda il carattere sognante di Who You Are (stava su Patience), ma porta quel tipo d’atmosfera a nuovo livello, con una profondità inedita che mette in risalto il delicato falsetto di Dabice. È quel che succede quando i Mannequin Pussy, come pittori, gettano sulla tela le loro emozioni crude e fanno un passo indietro, per vedere cos’hanno creato: una rappresentazione brillante del desiderio.

Da Rolling Stone US.

Altre notizie su:  Mannequin Pussy