Haim, la recensione di ‘I Quit’ | Rolling Stone Italia
Le ragazze della Valley Pt. IV

Le Haim hanno reso il soft rock di nuovo cool e l’hanno fatta franca

‘I Quit’ prende i suoni del passato e li rimescola per dire di non preoccuparsi degli altri, mollare le cose che fanno star male, mettersi alle spalle i rapporti tossici. E divertirsi

Le Haim hanno reso il soft rock di nuovo cool e l’hanno fatta franca

Alana, Danielle, Este Haim

Foto press

Le Haim stanno rendendo non solo sopportabile, ma persino figo il soft rock che una volta disprezzavamo? Sono la faccia allegra e presentabile del femminismo pop-ulista di Taylor Swift? Sono musiciste che sanno suonare e sono cresciute ascoltando la musica giusta e quindi riescono a vendere al pubblico pop cose che altrimenti non ascolterebbe mai? Hanno una spiccata sensibilità per i ritornelli e gli arrangiamenti? Mettono nei dischi troppe canzoni? Il nuovo album I Quit dimostra che le risposte a queste domande sono sì, sì, sì, sì e sì. È un buon disco? Un altro sì.

Il quarto lavoro di Danielle, Este e Alana Haim contiene di tutto, la tua canzone dell’estate e quella skippabile. Nei momenti migliori è la traduzione per l’epoca dello streaming del pop-rock leggero d’un tempo e del resto secondo Stevie Nicks tutte e tre avrebbero potuto far parte tranquillamente dei Fleetwood Mac. Nei momenti meno brillanti offre pezzi che quarant’anni fa sarebbero finiti sui lati B dei 45 giri, le chicche che conoscevano solo i fini conoscitori, ma che alla fine non erano mai all’altezza dei lati A. È anche una specie di disco-manifesto che dice una cosa: non preoccuparti degli altri, molla le cose che ti fanno star male, mettiti alle spalle le “fucking relationships”.

Una relazione finita è ad esempio quella fra Danielle Haim e l’ex co-produttore del gruppo Ariel Rechtshaid che per la prima volta non affianca il trio. Ora il co-produttore e co-autore principale è Rostam Batmanglij, il mix è curato da Dave Fridmann, contribuiscono qua e là tra gli altri Justin Vernon, Clairo, Tobias Jesso Jr, Cass McCombs. La foto del booklet scattate in una lavanderia della San Fernando Valley, da dove vengono le tre, sono del regista Paul Thomas Anderson, consigliere, collaboratore, amico da una vita.

Con un titolo preso dal film con Tom Hanks Music Graffiti (That Thing You Do!), I Quit è un breakup album per niente moscio o cupo, ha anzi uno spirito leggero e libertario. Se Women in Music Pt. III era in parte frutto di terapia e riflessioni, questo è un invito a divertirsi e prepararsi a passare una gloriosa single girl summer. La vita insomma non gira attorno ai rapporti e forse conta il fatto che per un breve periodo, mentre facevano il disco, le tre sono ridiventate single contemporaneamente dopo tanti anni.

Lo spiegano bene le prime tre canzoni. Nel caso il concetto di libertà non fosse sufficientemente chiaro, Gone contiene un campionamento ricontestualizzato di Freedom ’90 di George Michael. Ispirata dall’uso dei sample nell’ultimo di Beyoncé, Danielle Haim riprende il coretto della hit del 1990 per raccontare di una ragazza “born to run” che tronca una relazione tossica. Segue All Over Me, che riassumerei così: si scopa, sì, ma niente parole d’amore e niente esclusività. E poi c’è Relationships, quella che dice “tesoro, come si spiega che un errore innocente è durato 17 giorni?”, sottinteso di baruffe. Morale: “Relazioni del cazzo”.

HAIM - Relationships (Official Video)

C’è insomma una voglia di libertà totale che si traduce in canzoni sexy, dall’andamento tipico del trio che sta a metà strada tra il soft rock anni ’70 e il vecchio rhythm & blues, con bei tocchi d’Americana forse mai così evidenti nel loro repertorio. È una delle cose che le distingue dall’amica Swift: lei è un mix di cerebrale e provinciale, America bianca profonda e senso dell’ironia velenoso, loro sono più metropolitane e sguaiatelle, dotate di una sensualità naturale nel far musica, contagiose nella loro apparente noncuranza, capaci di fare pop col feeling della musica suonata. E sono volutamente e spudoratamente buffe, che è poi una delle cose che permette loro di rendere il soft rock nuovamente cool e di farla franca.

Sono musiciste rock con l’immaginario, la leggerezza, i balletti del pop, cosa normale per gli under qualcosa, sospetta per gli over qualcos’altro. Di sicuro l’elemento giocoso nella loro musica serve a rendere meno ponderosi i testi confessionali. Non ci sono gesti musicali memorabili, ma che piacere l’assolo semplice ma vecchio stile di Gone, la linea di basso di Relationships, l’intreccio tra Wurlitzer e chitarre di Down to Be Wrong, l’Hammond abbinato a quei suoni acuti di chitarra elettrica in Try to Feel My Pain. E che goduria il senso di liberazione di Take Me Back con le chitarre acustiche suonate a tutta birra, il glockenspiel, l’assolo di sax. È una canzone nostalgica che ti fa venire voglia di vivere intensamente il presente.

Certo, a compilare il catalogo dei riferimenti e delle assonanze ci si perde e sono sicuro che chi ascolta musica da tanto tempo storcerà il naso. Si va dalla Sheryl Crow di Down to Be Wrong (a proposito di riferimenti uncool) a una via di mezzo fra The Band e i Rolling Stones delle ballate d’inizio anni ’70 in The Farm. Ci sono pure gli U2, ovvero il riff di Numb preso e trasportato in Now It’s Time. È musica per questi tempi in cui poco si crea e tutto si riusa. L’idea di mimare il passato è stata usata anche nelle copertine dei singoli che hanno preceduto l’uscita dell’album basate sulla cosiddetta estetica paparazzi. Sono riferimenti rassicuranti, ma se c’è nostalgia è ammiccante, non ha una funzione diciamo così esistenziale.

HAIM - Take me back (Official Lyric Video)

Quando all’incirca a metà ti stai convincendo che I Quit sia il loro disco migliore arrivano tre, quattro pezzi carini ma minori, anche se poi si risale prima del finale con una specie di blues chiamato Blood on the Street (“Giuro che non t’importerebbe se fossi morta per strada coperta di sangue”). Maledetta contemporaneità che ti convince che mettere 15 canzoni e non 10 o 12 sia una buona idea. È il problema delle Haim, se ne hanno uno: se cammini sul confine sottile fra l’invenzione pop e la canzone superflua, passare da una all’altra è un attimo.

Va detto che I Quit è un disco molto di Danielle, anche se Alana canta la disco mutante di Spinning ed Este riesce a non rendere Cry lacrimosa. C’è pure una canzone con chitarre fuori fuoco tipo shoegaze che s’intitola Lucky Stars. Tante cose. Troppe? Forse il passaggio dal perfezionista Rechtshaid al più spontaneo Batmanglij ha spinto il trio a battere più strade. Come ogni altro lavoro delle Haim, I Quit è discontinuo e incasinato, ma forse un po’ di vitalità scombinata è giusto che ci sia in un album che dice: molla quel bastardo e divertiti con noi. Del resto, chi non vorrebbe far serata con queste tre?

“È davvero questa la merda con cui i nostri genitori hanno dovuto convivere?”, chiede Danielle in una canzone. È la stessa identica merda, care Haim, ma almeno voi avete la sfacciataggine di iniziare il disco con la domanda “posso avere la tua attenzione per l’ultima volta prima che me ne vada?” e di chiuderlo con “sono qui per dirti che non me ne è mai fregato due cazzi?”. E anche qui la risposta secondo me è sì.

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