Erano sempre state lì, nascoste fra i preziosi archivi springsteeniani, e ora pubblicate nel primo disco in ordine cronologico di Tracks II: The Lost Albums, in uscita il 27 giugno. LA Garage Sessions ’83, l’album più atteso tra i sette del cofanetto, non è una sorpresa per tutti. I fan di lunga data (ma anche quelli più recenti, grazie a internet e a YouTube) hanno potuto ascoltare o scaricare molti brani e provini di quelle session, nelle loro diverse versioni, grazie ai bootleg della serie The Lost Masters, usciti nel 1996 e trafugati – con ogni probabilità – da Mike Batlan, ex roadie e guitar tech di Springsteen, ingaggiato nel 1973 e figura centrale come tecnico di registrazione di Nebraska e di questo album perduto.
Alcune canzoni di questo Lost Album, come Johnny Bye Bye (omaggio a Elvis Presley, ispirato a Bye Bye Johnny di Chuck Berry), Shut Out the Light e County Fair hanno visto la luce come B-side o bonus track in raccolte ufficiali. A My Hometown verrà affidata la chiusura di Born in the U.S.A. Ma è solo ora, per la prima volta, che, ripulite e rimasterizzate con cura, sono raccolte insieme per una pubblicazione ufficiale. E suonano decisamente meglio di come le abbiamo mai sentite.
La cifra stilistica di LA Garage Sessions ’83 – 18 canzoni tra riverberi, echi, loop e tastiere da musica 8-bit – è quella di un Nebraska pop. Un ossimoro discografico a tutti gli effetti, ma che dà il senso complessivo di un’opera che, pur restando homemade, si nutre di influssi più larghi dell’album del 1982. L’ispirazione più variegata, che pesca da rockabilly, synth pop e folk, conferisce a questo materiale una sensibilità più stravagante e lunare. Un altrove musicale da disco indie, come ha detto lo stesso Springsteen nel video introduttivo al box set. Da questo punto di vista, si tratta quindi di un inedito assoluto nell’universo del rocker del New Jersey.
Elaborato nel garage della sua nuova casa – la prima di sua proprietà – sulle colline che sovrastano Laurel Canyon Boulevard e Hollywood Boulevard, nella California del Sud (lo Stato in cui si erano trasferiti la sorella Pam e i genitori), l’album prende forma in una fase di transizione creativa tra il capolavoro del 1982 e il boom planetario di Born in the U.S.A.
La casa, acquistata nel giugno di quell’anno, diventa rifugio e laboratorio per il Boss, preoccupato dalla fama crescente di cui il tour di The River è stato suggello e disorientato su che tipo di musica fare. Una sola cosa è certa: sta capendo il “come”. Discograficamente è sempre più determinato all’indipendenza, per evitare di perdere tempo (e denaro) negli studi di registrazione con la E Street Band, come aveva fatto nel decennio precedente. Complice di questa fase è lo studio allestito nel garage dal roadie – con cui negli anni successivi ci sarà una controversia chiusa con un accordo riservato – una versione 2.0 delle tecniche di registrazione usate l’anno prima per Nebraska.
«Un fortunato incidente», ha detto di quell’album il Boss non troppo tempo fa, ai microfoni della CBS, per promuovere l’uscita del libro Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska, scritto da Warren Zanes e pubblicato in Italia da Jimenez, di cui a ottobre vedremo anche la trasposizione cinematografica. Un “incidente” reso possibile solo un anno prima da un Tascam Portastudio 144 a quattro tracce, con l’aggiunta di un Echoplex Gibson per gli effetti delay, costato in tutto 1000 dollari e montato direttamente da Batlan nella stanza degli ospiti della casa in affitto del Boss a Colts Neck, nel nativo New Jersey.
I brani di LA Garage Sessions ’83 raccontano la stessa America misteriosa, redenta e fragile, moralmente ambigua, fatta di uomini in fuga da se stessi o dai guai, di gente che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese, osservata con uno sguardo più disincantato, che si sottrae volutamente alla prospettiva magica e tenebrosa dell’infanzia che aveva accompagnato i brani del suo primo disco acustico. Diciotto racconti brevissimi filtrati attraverso una cupezza – a tratti radiosa – che rimanda dunque a Nebraska, ma con una tensione sperimentale del tutto nuova, inconsapevole ponte verso Born in the U.S.A. Una tensione che si coglie in My Hometown, qui presentata in bozza, più spoglia ma già carica della sua proverbiale nostalgia.
L’introduzione è affidata a una superlativa cover di Follow That Dream (molto amata dal Boss), scritta nel 1962 per Elvis Presley, già rodata dal vivo con successo durante il tour di The River nel biennio ’80–’81. In One Love c’è un sogno romantico a due confezionato con tonalità sintetiche. C’è il folk noir di Jim Deer e Richfield Whistle, due racconti che condividono lo stesso protagonista, in bilico tra redenzione e ricaduta. C’è il lirismo rurale di Sugarland, con una crisi agricola in pieno edonismo reaganiano che spinge verso la distruzione, col protagonista che minaccia di dare fuoco ai campi.
Ci sono personaggi spezzati da colpa e segreti inconfessabili, come nella crepuscolare, bellissima Fugitive’s Dream o nella notturna Unsatisfied Heart, dove la stessa scena onirica ritorna come condanna: “Una notte dopo l’altra, tornano gli stessi sogni”. Ma c’è anche spazio per un romanticismo alla Buddy Holly (Little Girl Like You) e per inni guitar rock da 45 giri come Don’t Back Down on Our Love e Seven Tears.
The Klansman ha una delle musiche migliori ma, per farle spazio, è stata sacrificata un’autentica gemma: la versione pop di Don’t Back Down che utilizzava lo stesso sottofondo. Raccontato in prima persona dal figlio di un membro del Ku Klux Klan, The Klansman è forse il brano più disturbante del disco. Una riflessione sulla trasmissione intergenerazionale dell’odio razziale e su quanto sia difficile prendere le distanze da un padre “tossico”.
Ma per comprendere davvero a fondo lo spirito che aleggia su LA Garage Sessions ’83 bisogna prima di tutto entrare nello stato d’animo di Springsteen al suo arrivo in California, nell’autunno del 1982. Nebraska era uscito nei negozi il 30 settembre dello stesso anno: un disco lo-fi, scarno e poetico, che aveva ridefinito la sua scrittura e il modo di approcciare la produzione musicale, unanimemente apprezzato da critica e pubblico seppur pressoché ignorato dai circuiti radiofonici nazionali. Fu anche il primo album della carriera del Boss che non ha portato dal vivo.
Springsteen, che si apprestava ad attraversare il Paese in stile On the Road, sulla Route 66, per andare a svernare in California, era reduce dal suo primo grave episodio depressivo e si era appena lasciato con la fidanzata ventenne dell’epoca. Con l’estate del 1982 nello specchietto retrovisore, dopo dieci giorni di viaggio su una Ford XL del ’69, insieme all’amico meccanico Matt Delia – il suo Dean Moriarty – anche lui totalmente in down perché lasciato dalla fidanzata (si era portato addirittura un orsacchiotto di peluche da coccolare, che il Boss – come racconta in Born to Run, la sua autobiografia del 2016 – scaraventa frustrato nel bagagliaio), il rocker ha un crollo emotivo che è l’ennesimo turning point della sua vita e della sua carriera.
Prima di raggiungere il Texas, vede la sua vita andare in pezzi in un sogno a occhi aperti. Da spettatore osserva una fiera di paese: le coppie che si tengono per mano, le risate al calar della sera, i bambini che giocano rincorrendosi: in una parola, la vita. Ciò che il Boss, risucchiato da schemi emotivi irrazionali, originati dai paesaggi dell’infanzia e dagli spettri di Freehold, sente con immenso dolore di non avere e forse di non poter mai raggiungere. Comprende con amarezza che l’anestetico usato fino a quel momento per placare i fantasmi – il palco, i viaggi – non basta più per sedare un dolore così antico. Forse la malinconica County Fair, poi riproposta in una versione riarrangiata nel terzo disco della compilation The Essential del 2003, è in questo senso il brano più emblematico di questo primo lost album.
«Non sapendo dove altro andare, mi ritrovo prigioniero del mio braccio della morte in miniatura sulla West Coast». Con questa frase, affidata anni dopo all’autobiografia, Springsteen ricorda il suo stato d’animo prima di varcare incerto la soglia della sua nuova magione, situata al 7965 di Fareholm Drive, sulle colline sopra Los Angeles. Un tempo appartenuta a Sidney Toler, l’attore che interpretava Charlie Chan, la casa includeva un appartamento sopra il garage, dove il suo roadie e tecnico Mike Batlan, assistito da Obie Dziedzic – la prima fan di Springsteen e della E Street Band – e con la supervisione di Toby Scott, aveva installato nel garage un piccolo studio di registrazione sull’onda della filosofia DIY di Nebraska.
È lì, in quel garage sotto all’appartamento di Hollywood Hills, che prende forma la prima incarnazione di quello che Springsteen avrebbe poi battezzato Thrill Hill West, branca californiana della sua Thrill Hill Recording Company, fondata nel novembre del 1982. Le LA Garage Sessions ’83 sono la prima rappresentazione sonora di questo nuovo metodo. Proprio per continuare a seguire questi impulsi sperimentali in solitaria, nei primi mesi del 1983 – tra gennaio e primavera – il musicista passa molte ore nel garage-studio e lavora a una serie di brani.
Un registratore MCI a 8 tracce, una console Trident Trimix a 16 canali, qualche effetto di base per voce e chitarra (probabilmente delay e riverberi semplici) e un set up minimale per sintetizzatori e drum machine permettono a Springsteen di cominciare a esplorare timidamente un modo totalmente diverso, artigianale ma efficace, che gli permetterà da allora in poi di dedicarsi alla scrittura e alla produzione musicale in un modo completamente autonomo, prima di affidare la sua musica alla E Street Band o ai musicisti con cui ha collaborato.
È un disco-germe dalla doppia faccia, LA Garage Sessions ’83, dove l’America che Bruce Springsteen canta è quella interiore, sfilacciata, sull’orlo di una crisi, appena dopo uno sguardo lanciato allo specchio: la consapevolezza, forse, di un inizio di resa. Leggendo Born to Run abbiamo compreso che quella crisi, l’impossibilità del sogno americano, era anche sua.
Proprio in California, per la prima volta – spinto anche dal manager Jon Landau dopo quel terribile viaggio on the road che l’ha portato sull’orlo dell’abisso – va a far visita a uno psicologo. Comincia lì un’altra avventura, che con i palchi non ha nulla a che spartire. Ne è anzi l’antitesi: l’esplorazione della mente, per cercare di avere una vita normale, senza per questo annullare la rockstar.
Se Nebraska è stato l’infanzia del nuovo metodo springsteeniano, le Garage Sessions ne rappresentano l’adolescenza. La maturità sarà invece appannaggio di Tunnel of Love, considerato non a caso uno dei migliori esempi di adult rock, etichetta discutibile ma storicamente rilevante. «Il rock non muore, matura», pare abbia detto Keith Richards.