C’è un momento seminascosto nei nove minuti della Blues Jam del 1975 che i Rolling Stones hanno registrato con Jeff Beck e che è contenuta nell’edizione super deluxe di Black and Blue. Il chitarrista smette di suonare blues alla Howlin’ Wolf, alla B.B. King o alla Keith Richards e inizia a smanettare col volume dello strumento fino a fargli emettere un suono miagolante. Ha qualcosa di sublime, quel suono, e non somiglia a nessun’altra cosa incisa dagli Stones. E forse è anche per questo che Mick & Keith non hanno fatto entrare Beck nella band dopo la defezione di Mick Taylor, che se n’era andato pochi mesi prima insoddisfatto, tra le altre cose, del fatto che non gli concedessero di firmare i pezzi. Il punto è che Beck era semplicemente troppo bravo e aveva troppa inventiva per diventare uno degli Stones. La storia ci ha insegnato che non era in ogni caso tagliato per mettersi al servizio di una band.
Le tre jam che Beck ha registrato con il gruppo – inclusa un’impressionante interpretazione dell’allora inedita e jazzata Freeway Jam, una gemma uscita in Blow by Blow in cui Richards sembra trattenuto e il batterista Charlie Watts a suo agio – sono i pezzi forti della ristampa che rimanda all’epoca più strana degli Stones. Black and Blue del 1976 viene spesso raccontato come una specie di talent degli Stones: 40 minuti di rock, ballate e reggae che funzionavano anche da provini per Harvey Mandel dei Canned Heat, il turnista Wayne Perkins e Ron Wood dei Faces. Nessuno preferisce questo disco ai classici degli Stones, ma col senno di poi potremmo dire che è stato sottovalutato. Forse l’idea che fosse un Chi vuol essere un Rolling Stone? ha messo in ombra le canzoni.
Va anche detto ed è significativo che sono stati gli stessi Stones i primi ad averne scarsa considerazione visto che dal vivo hanno suonato raramente questi pezzi rispetto ad altri dell’epoca, ovvero quelli appena precedenti di It’s Only Rock and Roll del 1974 e quelli successivi di Some Girls del 1978. La stampa musicale dell’epoca ha criticato gli Stones perché in Black and Blue sembravano dei freddi professionisti, trentenni che, per citare quella hit, offrivano più “only” che “rock and roll”. È vero che il disco è più curato dei precedenti (non lo era l’imbarazzante campagna pubblicitaria che è stata cancellata quasi subito), ma è uscito in un momento in cui ci si aspettava ancora che i musicisti rock morissero prima di invecchiare. E dal punto di vista strettamente musicale, le canzoni sono ben costruite, esempi di rock maturo, e questo indipendentemente dal fatto che agli stessi Stones piacesse ammetterlo o meno.
La copertina è relativamente sobria: un semplice ritratto fotografico, il primo dai tempi di Between the Buttons. I due singoli sono la ballata malinconica con un falsetto alla Smokey Robinson Fool to Cry e l’ibrido fra disco e rock Hot Stuff. Non avevano il piglio di una It’s Only Rock and Roll (But I Like It) o di Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker), però nell’album ci sono Hand of Fate e Crazy Mama, esplosivo quasi quanto qualsiasi altro pezzo del periodo post Exile. Semplicemente, gli Stones non sembravano assetati di sangue come lo erano stati ad esempio in Star Star.
Le ballate Memory Motel, ode alle groupie di Long Island che a quanto pare erano indimenticabili nel senso peggiore del termine, e Melody (ehi, almeno di lei si ricordavano il nome!) sono morbide e soul, hanno un tono adeguato all’età degli Stones soprattutto grazie alle parti di pianoforte e ai cori di Billy Preston. Cherry Oh Baby di Eric Donaldson è convincente tanto quanto qualunque altro reggae bianco prodotto dai rocker inglesi nei ’70, ma se non altro è invecchiata meglio di I Shot the Sheriff di Eric Clapton. Sono tutte canzoni sparite o quasi dalle scalette degli Stones dopo il tour di Some Girls, l’album che ci ha fatto capire perché non poteva che essere Wood a vincere la Grande guerra delle chitarre.

La controversa inserzione pubblicitaria degli Stones che giocava sul significato dell’espressione ‘Black and Blue’, essere pieni di lividi. Foto: Atlantic
Riascoltato oggi, nel contesto del box set, l’album suona bene, affilato, vivace. Il mago del suono Steven Wilson ha ravvivato i master quanto basta per far respirare un po’ di più gli strumenti senza alterare le canzoni. Come ha detto a Rolling, «alcuni dicono che sia il disco degli Stones con il miglior suono degli anni ’70 e potrei anche essere d’accordo», il che forse spiega perché ci è andato leggero nel mix. Le canzoni sono sfumate negli stessi punti in cui lo erano nel 1976 e non ci sono assoli di chitarra alternativi dissepolti per l’occasione, né jaggerismi che non conoscevamo.
Il mix 2025 di Wilson eccelle nel dare la sensazione che le ballate siano “nuove” e brillanti, con parti di piano più evidenti in Fool to Cry e il soul del bridge di Richards “she’s got a mind of her own” in Memory Motel più pronunciato. L’unico punto in cui i nuovi mix soffrono è nei pezzi influenzati dalla disco e dal reggae, che suonavano volutamente claustrofobici negli anni ’70 per gusto musicale, per l’uso di coca o per entrambe le ragioni. Wilson ha allargato un po’ troppo lo spettro sonoro di Hot Stuff e di Cherry Oh Baby, che in ogni caso non hanno perso il loro spirito e il basso di Bill Wyman non ha mai suonato meglio. In generale è giusto che il mix non sia troppo drammatico e quindi distraente.
Le bonus track, I Love Ladies e una cover di Shame, Shame, Shame di Shirley & Company, anticipano le atmosfere di Emotional Rescue, con Mick Jagger che ha l’esuberanza vocale di un Topolino che fa serata allo Studio 54. Sono divertenti, ma non sarebbero state bene dentro Black and Blue quanto Slave o la versione reggae di Start Me Up, entrambe registrate nelle stesse session e poi pubblicate su Tattoo You.
Sono comunque due buoni inediti e viene da chiedersi cos’altro ci sia negli archivi e se prima o poi qualcuno pubblicherà ufficialmente Carnival to Rio, il pezzo funk che gli Stones e Preston hanno registrato con Eric Clapton più o meno in quel periodo. E poi, Chuck Berry Style Jam con Harvey Mandel è fantastica e in Rotterdam Jam Robert A. Johnson alterna i suoi assoli con quelli di Beck e Richards, ma dove sono finite le altre jam, a partire da quelle con Rory Gallagher, che secondo la leggenda era troppo bravo per entrare negli Stones?
Alla fine, però, anche i pezzi dal vivo inclusi nel box set risalenti al concerto del 1976 a Earls Court (alcuni estratti erano già usciti in Love You Live) dimostrano che l’uomo giusto era Wood. Non solo era inglese (a differenza di Perkins, che è stato sul punto di entrare nella band), ma le sue parti s’intrecciano alla perfezione con quelle di Richards. Sentite come suona in Hey Negrita, brano di Jagger-Richards per cui ha ricevuto un credito di “ispirazione” (lui sostiene nelle note di copertina che ha scritto tutto tranne il testo), oppure come in Hand of Fate e Fool to Cry replica le parti di Perkins come se le avesse scritte lui. Con l’aiuto di Preston, Ain’t Too Proud to Beg suona più funk del solito e Get Off of My Cloud ha un’atmosfera honky-tonk. Anche Jagger appare particolarmente selvaggio e cambia le parole di It’s Only Rock and Roll, Brown Sugar e Street Fighting Man con versi provocatori che ben si adattano alla succitata campagna pubblicitaria. Si capisce che non gliene fregava granché d’essere considerato un moderato.
Il film concerto del Blu-Ray a Les Abattoirs di Parigi (alcune registrazioni erano finite su Love You Live) li mostra invece un po’ sottotono. Forse il pene gonfiabile che Jagger cavalca durante Star Star aveva bisogno di un po’ di Viagra. Jagger cerca di ravvivare l’atmosfera tirando acqua e coriandoli e oscillando sopra il pubblico appeso a una corda come Tarzan, una trovata che nel 1976 era tutto sommato nuova. Il carisma di Wood è evidente. Perkins era un uomo da studio di registrazione, Woody aveva già macinato chilometri in tour coi Faces. Di nuovo: non c’è dubbio fosse la scelta giusta.
Gli Stones hanno liquidato Black and Blue come un disco di passaggio tra Mick Taylor e Ron Wood, e invece il box set li mostra alle prese con uno snodo cruciale della loro carriera, aperti a nuovi suoni e musicisti senza deragliare. Sono canzoni che meriterebbero una seconda vita. Se il titolo Black and Blue evoca i lividi, gli Stones all’epoca si stavano riprendendo da quelle botte. Che peccato però che non ci siano molte più registrazioni con Beck e con gli altri musicisti: avremmo avuto un assaggio dello stile degli Rolling Stones in un universo parallelo.














