Blur, la recensione di 'The Ballad of Darren' | Rolling Stone Italia
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In ‘The Ballad of Darren’ i Blur cantano la loro età, non i vostri vent’anni

Ma quale nostalgia per il Brit pop. Facendo leva sulle vicende personali di Damon Albarn, la band racconta la storia collettiva di cinquantenni che rimuginano sulla provvisorietà della vita. La recensione del disco più emozionante dei Blur

In ‘The Ballad of Darren’ i Blur cantano la loro età, non i vostri vent’anni

Blur

Foto: Reuben Bastienne-Lewis

Tocca iniziare dal Festival di Sanremo. I Blur ci sono andati nel 1996 per fare Charmless Man in playback. Presentandoli, Pippo Baudo disse che erano considerati i nuovi Beatles. Furono quattro minuti di caos e cazzonaggine. Graham Coxon non poteva esserci e al suo posto fu piazzato un cartonato col quale Damon Albarn fece lo scemo, buffa testimonianza e un po’ presa in giro della tradizione italiana di far programmi televisivi musicali senza musica. Come se non bastasse, Alex James non si presentò in aeroporto e fu rimpiazzato all’ultimo momento dalla guardia del corpo Smoggy, il cui vero nome è Darren Evans.

Il nuovo album dei Blur, il primo da otto anni a questa parte, è dedicato a lui, Darren. O meglio, The Ballad of Darren prende spunto dalla sua figura, ma soprattutto dalla vita di Albarn per raccontare una storia collettiva, quella di cinquantenni che invecchiano, si lasciano alle spalle cose e persone, rimuginano sulla provvisorietà della vita. Probabilmente non sono i Blur che v’aspettate e più amate, ma sono pur sempre dei Blur grandiosi. Non ci sono una Boys & Girls, una Country House e nemmeno una Song 2, nonostante l’attacco promettente di St. Charles Square. C’è invece il Damon Albarn campione di racconti malinconici, il cantore diversamente lucido della quiet desperation di cui filosofeggiavano in musica quelli là, l’uomo che cattura il carattere musicale inglese, «una forma di scoraggiamento che d’improvviso diventa gioia per poi tornare scoraggiamento». Va bene così: ha 55 anni ed è naturale che canti la sua età, non i vostri vent’anni.

The Ballad of Darren è un disco grandioso sul tempo che passa e sulla perdita di qualcosa, di qualcuno, che sia una partner da cui ti separi o un amico che muore, nel caso di Albarn viene naturale pensare a Tony Allen, a Bobby Womack, al tour manager Craig Duffy. Lo si capisce dalle prime parole che si sentono: “Ho guardato nella mia vita e l’unica cosa che ho visto è che non tornerai”. Albarn riempie i testi di dettagli, le occasioni in cui i personaggi si incontrano, tanti luoghi, qualche nome, giacché The Ballad of Darren è un disco distintamente suo, un inventario accurato della sua vita, come ha detto alla BBC. Rimane sufficientemente vago da non farti capire se sta parlando solo di sé oppure della sua generazione o magari della band, come avviene effettivamente in The Narcissist coi suoi riferimenti ai primi giorni e ai sogni di gloria suoi e dei Blur.

E così The Ballad, sorta di versione completa della Half a Song di una quindicina d’anni fa, potrebbe riguardare la fine di una storia d’amore, la morte o forse il rapporto con Graham Coxon, giacché uno canta di quando si sono innamorati, l’altro risponde che “abbiamo girato il mondo assieme”. In Barbaric il protagonista si chiede se “hai avuto tempo di parlare con te stessa di ciò che questa rottura m’ha fatto” e in Russian Strings chiede “tornerai da noi? Sei online? Sei di nuovo contattabile?”. Perché The Ballad of Darren è anche un disco di connessioni e disconnessioni.

La prima parte si chiude idealmente con la domanda retorica: perché tutto svanisce? O meglio, con un’affermazione: verranno giorni in cui non dovremo chiederci perché tutto svanisce. Nella seconda s’intravede un percorso verso l’accettazione, con la promessa di non fare più cazzate, di non perdersi più (The Narcissist), di mettersi alle spalle la depressione (Goodbye Albert), l’idea di non sentirsi più smarrito (Far Way Islands), la storia antica della ricerca della felicità in un luogo, nel caso di Albarn la casa nel Devon in cui a volte si sente auto-esiliato (Avalon). E no, non è roba che puoi ascoltare in auto con gli amici aspettando gli “woo-hoo!” e i riff da due accordi. Devi sentirlo in cuffia, coi testi sotto mano, ci vuole un minimo di concentrazione per entrare in questo mondo. Non è, però, un disco per presi male. Albarn ha un modo tutto suo di cantare depressione e malinconia senza cadere nell’autocommiserazione, nel diarismo, nella narrazione senza fantasia, nella noia, e gli altri Blur arricchiscono i pezzi di piani sonori che li portano in una dimensione tutta loro.

È il disco più emozionante dei Blur, mica male per un gruppo che ha iniziato mille anni fa. Il produttore James Ford, quello degli altri precisi cesellatori di suoni che sono diventati gli Arctic Monkeys, ha tirato fuori il meglio dal gruppo, contribuendo a trasformare nel giro di un paio di mesi i demo registrati dal cantante durante il tour dei Gorillaz in un’opera collettiva. Come in St. James Square, che ribadisce il ruolo di Coxon come elemento centrale nella definizione del suono, con quella chitarra dalla tonalità incerta. A volte sono solo brevi passaggi armonici che portano altrove, come nel finale di Barbaric, a volte è l’equilibrio tra gli elementi, una chitarra che non sembra una chitarra, le armonizzazioni, come in Russian Strings. A volte è molto semplicemente la presenza meravigliosa della voce di Albarn, a volte sono piccoli dettagli sonori, una chitarra gracchiante o una voce raddoppiata. La faccio breve: sono canzoni suggestive, a volte commoventi «perché così è la vita», ha detto Albarn. Non si sentivano dei Blur così in palla dal 1999.

Colpiscono anche i testi che non capisci razionalmente. Come quello del magnifico soul-pop Avalon: “E volano poi aerei dipinti di grigio in viaggio verso la guerra, sto digitando il numero, sto digitando, l’oscurità è alla porta, poi esagero con la dose e non so nemmeno più se sono qui. È solo qualcosa che viene a tutti noi”. La guerra, la droga, la vita che ti viene addosso: non saprei dire cosa significhi di preciso, so che quando lo canta Albarn e i cori lo accompagnano e il gruppo cambia ritmo e tonalità capisco che in questo mondo di banalità spacciate per idee geniali, i Blur sanno ancora come si scrivono e registrano canzoni vere.

Oltre ad essere un disco sul tempo che passa e sulla provvisorietà dell’esistenza, forse The Ballad of Darren è anche una dichiarazione d’amore per il mestiere di musicista. Viene da pensarlo ascoltando The Heights, con una coda rumoristica che sembra la forma musicale di “quella cosa talmente luminosa che non riesci a vedere” raccontata nel testo, una visione finale che pur essendo caotica rende tutto chiaro, una sbirciata dietro al grande sipario. Albarn ringrazia qualcuno che c’è sempre stato, in ultima fila. E assicura che un giorno si ritroveranno, questa volta in prima fila, uno di fianco all’altro. Di nuovo, è difficile dire se stia cantando di qualcuno in particolare, di vita dopo la morte, di un concerto vero e proprio, di loro quattro o di tutti noi, ovvero del rapporto dei Blur col pubblico. I sentimenti del principe della malinconia brit non sono mai unidimensionali. E però alla fine di questa magnifica esplorazione del vuoto resta una strana, confortante sensazione di comunanza.

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