‘Hackney Diamonds’ non è il “solito” album dei Rolling Stones: la recensione | Rolling Stone Italia
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‘Hackney Diamonds’ non è il “solito” album dei Rolling Stones: la recensione

Jagger, Richards e Wood non raccontano come certi colleghi la vita a 80 anni d’età, ma hanno fatto un disco che vien voglia d’ascoltare più volte. Dopo 60 e passa anni di carriera, non era affatto scontato

‘Hackney Diamonds’ non è il “solito” album dei Rolling Stones: la recensione

I Rolling Stones nel 2023

Foto: Mark Seliger

L’ultima volta che i Rolling Stones hanno pubblicato un album d’inediti il presidente americano era George W. Bush. Quel disco, A Bigger Bang del 2006, era esuberante, ma non memorabile tant’è che nei due decenni, o quasi, che sono trascorsi da allora persino gli Stones hanno cominciato a pensare (forse) che un altro disco di inediti non fosse necessario. E comunque, doveva valere la pena, per loro e poi noi. Hackney Diamonds, che uscirà il 20 ottobre, è la raccolta di bangers (versione old school) che nessuna persona sana di mente poteva aspettarsi da loro nel 2023. Non è solo l’ennesimo album degli Stones, ma un disco vibrante e coeso, il loro primo da una vita che vien voglia di ascoltare più volte prima di metterselo alle spalle.

Sarà per via del nuovo produttore Andrew Watt o di qualche magia tecnologica, sarà molto più semplicemente per il desiderio di ricordarci quanto valgono, fatto sta che era da suppergiù mezzo secolo che gli Stones non sembravano altrettanto vivi. Le chitarre di Keith Richards e Ron Wood sono belle precise e dirette, lontane da certe schitarrate pigre del passato. A seconda della canzone, Mick Jagger suona brillante, irritato, bisognoso di attenzione o noncurante, il tutto col suo marcato accento British. Il testo di Angry (“Non piove da un mese, il fiume è in secca / Non abbiamo fatto l’amore e voglio sapere perché”) non è un gran esempio di poesia rock, ma le sue interpretazioni non erano così convincenti dai tempi in cui gli album degli Stones li si ascoltava su audiocassetta. Ad esempio, Depending on You poteva essere una di quelle ballate noiose degli ultimi album degli Stones e invece Jagger la interpreta come se volesse farsi sentire dal mondo intero.

Quando tutti questi elementi convergono, si ha l’impressione che gli Stones si siano abbeverati alla fonte dell’eterna giovinezza. A giudicare dal finale di Live by the Sword, uno dei due pezzi registrati con Charlie Watts prima della morte del batterista, non si direbbe nemmeno che siamo nel XXI secolo. Watt leviga al punto giusto il suono rivitalizzando canzoni che altrimenti risapute. In Mess It Up Jagger sembra cercare di entrare in contatto con gli under 30 che hanno a malapena sentito parlare degli Stones (“Condividi le mie foto con tutti i tuoi amici / le fai girare, non ha senso”), per poi lamentarsi del fatto che la sua amante gli ruba i “codici” (che immagino significhi “password”, a meno che Jagger non abbia accesso a un arsenale nucleare e non ce lo dica). Non è il testo, ma la combinazione tra l’interpretazione vocale e lo swing di Watts, il tutto con un tocco dance, che porta la canzone a un altro livello. È anche un bell’esempio di come alcuni pezzi dell’album bilanciano il “popismo” di Jagger e il “rockismo” di Richards in modo più fluido rispetto a dischi come Bridges to Babylon.

Nella maggior parte dell’album alla batteria c’è Steve Jordan, che ha suonato con Richards negli X-Pensive Winos e ha sostituito Watts nella formazione live degli Stones. Ha uno stile più duro di Watts, ma non c’è nulla di eccessivo nel suo apporto. Il pezzo più ambizioso, Sweet Sounds of Heaven, ha dentro di tutto, di più: arrangiamento honky-tonk-gospel in crescendo; Jagger che riflette sulla gente che ha fame e soddisfa la sua sete; Stevie Wonder al pianoforte; Lady Gaga che aggiunge un po’ di fervore. Persino Richards è ficcante. Dai tempi di Before They Make Me Run, che stava su Some Girls, il pezzo cantato da lui è un appuntamento fisso negli album degli Stones, ma col tempo le sue interpretazioni sono diventate sempre più deboli. E invece Tell Me Straight, basata su un riff cupo e scheletrico che non avrebbe sfigurato in un disco grunge anni ’90, è bella tirata come tutto l’album e anche Richards sembra finalmente convinto di ogni parola che canta.

Una cosa che non c’è qua dentro è l’introspezione tipica degli ultimi dischi fatti dai coetanei degli Stones. Viviamo in un’epoca affascinante in cui i musicisti che hanno fatto la storia continuano non solo a esibirsi, ma anche a scrivere: è un territorio inesplorato per loro, ma anche per noi. Ecco che per la prima volta, possiamo sapere che cosa passa per la testa di gente come Bob Dylan, Neil Young, Paul McCartney, Paul Simon o Judy Collins mentre si avvicinano agli 80 anni grazie a canzoni che fanno i conti con la mortalità e che gettano uno sguardo su esistenze tumultuose, e qualche volta riflettono sullo stato del pianeta.

Qui e là in Hackney Diamonds Jagger si abbandona a momenti di riflessione personale. “Le strade dove camminavo erano piene di vetri rotti / e ovunque guardassi c’erano ricordi del passato” canta in Whole Wide World, un pezzo che col suo testo e le parti scattanti di chitarra sembra pensato per tirarci su nei momenti più difficili. Cerca poi di allontanarsi da tutto questo nel country “shufflato” di Dreamy Skies, dove desidera una radio AM e un disco di Hank Williams.

Non sono canzoni particolarmente profonde. Jagger ha ancora un debole per i ritornelli semplici e il disco sembra un’opportunità mancata: non vorreste sapere che gli passa per la testa? E invece in Bite Your Head Off, dove sembra la versione brontolona di Get Off My Cloud, canta: “Non sono al guinzaglio, e nemmeno incatenato / pensi che io sia la tua troia, ma sto giocando con la tua testa” (sembra più a suo agio quando in Live by the Sword canta che “se vuoi diventare ricco è meglio tu faccia parte del consiglio d’amministrazione”).

Quando Richards e Wood entrano sul finale di Bite Your Head Off, dove appare il basso relativamente poco intrusivo di Paul McCartney, la canzone diventa una montagna russa sonora. E il brano di chiusura eseguito dai soli Jagger e Richards è una cover di Rollin’ Stone di Muddy Waters, che qui diventa Rolling Stone Blues. Sembra l’ovvia chiusura del cerchio. E forse hanno ragione loro. Che questo sia o non sia il loro ultimo album, forse è Bite Your Head Off il tipo di pezzo con cui dovremmo ricordare i Rolling Stones, e anche il rock.

Da Rolling Stone US.

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