Non ho mai capito se credere o meno alle coincidenze, alla numerologia. Eppure certe date, certe cifre tonde si richiamano e rincorrono in un modo impossibile da ignorare.
Era il 2015 quando Sufjan Stevens scriveva il suo Carrie & Lowell, un capolavoro di delicatezza in cui il cantautore americano trasformava il suo dolore personale, derivato dalla morte improvvisa della madre, in un sentimento universale. Ora, a 10 anni di distanza, c’è un nuovo bellissimo album che nasce dalla stessa drammatica situazione, Essex Honey di Blood Orange.
Dev Hynes, il nome dietro al moniker Blood Orange, ha perso la madre nel 2023. Confrontarsi con questo lutto, per lui, ha significato anche un ritorno in Inghilterra, la nazione che aveva lasciato appena ventenne dopo la fulminea (ma davvero eccitante) esperienza con i Test Icicles per tentare la carriera da musicista in America dove, prima, arriverà l’interessante esperienza a nome Lightspeed Champion e, in seguito, la consacrazione come Blood Orange.
C’è un altro numero che accomuna Sufjan Stevens e Dev Hynes, il 40. Entrambi infatti si sono trovati a pubblicare il loro album più intimo e significativo nell’anno del loro quarantesimo compleanno. Coincidenza? “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”, recitava il poeta. “And in the middle of your life, could you have taken some more time?” prosegue a secoli di distanza Hynes. Essex Honey è infatti un disco che racconta una crisi. Non solo quella relativa alla scomparsa di una madre, ma anche quella di un uomo che arrivato a metà della sua vita deve fare i conti con ciò che ha perso per sempre: l’innocenza, la spensieratezza.
Nella sua casa di famiglia, nel cielo plumbeo dell’Essex, Hynes si è così trovato a un confronto diretto con il suo passato e con una voragine lasciata da un lutto precoce. E per lui, che aveva già parlato ampiamente di depressione e ansia nel precedente Negro Swan, questo incontro con i fantasmi di una memoria scomparsa non è stata una passeggiata nei campi in un pomeriggio di sole, ma giornate intere di pioggia nella cameretta della propria infanzia. È stata la musica, da sempre ancora di salvezza del musicista, a dare però a Hynes la chiave per uscirne.
La produzione di Essex Honey è puro Blood Orange, ma rispetto agli episodi passati della sua discografia, è sicuramente meno ritmata e più introversa. Il suono è sempre alla ricerca di un’intimità sospesa, quasi ultraterrena, sottolineata dai bagni di riverbero che pongono – in particolare le voci – in un luogo altro dello spettro sonoro. I brani spesso subiscono improvvisi cambi di registro, come a ricordare lo smarrirsi della memoria (in questo ricorda il progetto di The Caretaker). La nostalgia è richiamata invece da altre memorie soniche del territorio, come gli echi dell’hardcore continuum dei rave degli anni ’90. Più esplicito e diretto di Carrie & Lowell, ma altrettanto magico e sofferente, Essex Honey scava nel ricordo con brani splendidamente riusciti come The Field, Mind Loaded, I Can Go, Look At You.
Nel ritorno nella sua terra natia però Hynes non è quasi mai solo. Spesso infatti nelle canzoni fanno capolino amicizie musicali costruite in questi vent’anni anni di carriera. Tra i nomi più evidenti ci sono quelli di Caroline Polachek, Lorde, Brendan Yates dei Turnstile, Tirzah, Daniel Caesar, giusto per citarne alcuni. Tutti però in ruoli di comprimari, tutti a disposizione del genio creativo di Blood Orange qui all’acme della sua creatività.
Essex Honey è un disco maturo, completo, che funziona non solo nei singoli brani (The Field, costruito su Sing To Me dei Durutti Column è forse il più bel pezzo uscito negli ultimi anni), ma proprio come corpus sonoro. Tutti i brani sono realizzati con una deliziosa cura che non c’è bisogno di soffermarsi per forza su un brano in particolare. Non è una collezione di singoli, come il pop moderno ci ha insegnato, ma un disco di 14 brani che, nel loro insieme, raccontano la struggente e confusionale crisi di un uomo. Di dischi così ce ne vorrebbero molti di più, c’è poco da fare.













