Ecco come il “complete unknown” Bob Dylan è diventato il folksinger più rilevante di sempre | Rolling Stone Italia
Contiene moltitudini

Ecco come il “complete unknown” Bob Dylan è diventato il folksinger più rilevante di sempre

E non si è più fermato... La recensione di ‘Through the Open Window’ che racconta la trasformazione del primissimo Dylan con registrazioni di varia natura che vanno dal 1956 al 1963

Ecco come il “complete unknown” Bob Dylan è diventato il folksinger più rilevante di sempre

Bob Dylan nel 1963

Foto: Sandy Speiser/Sony Music

Alla fine del 1961, un anno appena dopo essere arrivato a New York proveniente dal Midwest, Bob Dylan già conteneva moltitudini. Lo prova Through the Open Window, il diciottesimo volume dell’interminabile Bootleg Series. A soli 20 anni, in quell’autunno Dylan registrava il primo album affiancato dal produttore John Hammond. Tra i molti inediti contenuti negli otto CD del box set ci sono anche scarti di quelle session, tra cui una versione alternativa del traditional Man of Constant Sorrow. Con l’insicurezza di uno scout che chiede l’approvazione del caposcout dopo aver provato a fare un nodo, Dylan incide una take e poi chiede a Hammond se gli è piaciuta. Quando Hammond chiede se qualcun altro ha già inciso quel pezzo, vien fuori tutt’altro Dylan. «Non così. Judy Collins l’ha fatta, ma non una versione… non così. È un’altra cosa».

Nel contesto di un box set che racconta con dovizia di particolari la crescita artistica di Dylan prima della svolta elettrica, i dialoghi legati a Man of Constant Sorrow rappresentano un momento allo stesso tempo marginale e rivelatore. Non perché la versione di Dylan sia superiore a quella di chiunque altro, non la trasforma in un pezzo rock come farà con altri folk e blues, ma il suo accenno sprezzante a Judy Collins fa capire che sta cominciando a emergere l’artista spavaldo che ridimensionerà chiunque troverà sul suo cammino verso la ridefinizione di sé, dando una scossa mondo del folk newyorkese e della musica popolare tutta.

Through the Open Window copre gli anni che vanno dal 1956 al 1963 e si risulta quindi in qualche modo complementare al biopic A Complete Unknown uscito l’anno scorso. Inizia prima degli eventi narrati nel film, con un giovanissimo Robert Zimmerman che si diverte a suonare la hit di Shirley & Lee Let the Good Times Roll in un negozio di strumenti a St. Paul in quella che è la prima registrazione nota di Dylan. Il box set arriva fino a un paio d’anni prima della svolta elettrica al Newport Folk Festival del 1965. Un po’ come il film, racconta una storia che conosciamo: un ragazzo serio e ambizioso, ma apparentemente impacciato e dal passato misterioso, si trasferisce in una grande città, entra nella comunità dei musicisti, lascia tutti a bocca aperta col suo talento e le sue canzoni, per poi iniziare ad abbandonare i brani ispirati dalle notizie del giorno e dedicarsi a testi più ambiziosi, poetici, personali.

È una storia, inutile dirlo, già stata raccontata dai dischi ufficiali che vanno da Bob Dylan ad Another Side of Bob Dylan e Bringing It All Back Home e oltre. Ma Through the Open Window ci mostra un altro lato di quella trasformazione. Grazie a una miriade di fonti – registrazioni dal vivo nei club, nastri con Dylan che canta in case private o ai raduni, outtake, battute sul palco – ci permette di assistere al cambiamento di questo ragazzo che si trasferisce dal Midwest a New York, frequenta i caffè e i club del Village, suona per gli amici, interagisce con altri musicisti, ne saccheggia il repertorio (in particolare quello del mentore Dave Van Ronk) e conversa con un dj radiofonico entusiasta. È una storia familiare, sì, ma non esisteva un documento tanto dettagliato di questa metamorfosi, un documento che peraltro ci fa capire quanto rapida e intensa è stata.

 

Curato da Steve Berkowitz e Sean Wilentz, il mastodontico box set (disponibile anche in un’edizione ridotta su due CD per i dylanologi a corto di soldi) include una certa quantità di materiale già uscito in precedenti Bootleg Series e in altre antologie. Ma 48 brani non erano mai stati ascoltati da nessuno al di fuori dei collezionisti e dei custodi dell’archivio di Dylan, il che ne accresce il valore storico. Possiamo finalmente ascoltare uno dei suoi set all’autunno del 1961 al Gerde’s Folk City. Non è quello a cui assistette il critico del New York Times Robert Shelton, scrivendo poi una recensione entusiasta che valse al folksinger il contratto discografico, ma uno di pochi giorni dopo. C’è anche la prima esecuzione dal vivo di Blowin’ in the Wind che mostra come la canzone fosse già compiuta fin dal principio. Non tutte le rarità sono all’altezza della leggenda che le ha precedute: il set al Folk City non è certo perfetto e Talkin’ John Birch Paranoid Blues, la famigerata presa in giro del gruppo ultraconservatore, suona fin troppo scherzosa, ma era un sacco di tempo che si sperava che venissero pubblicati ufficialmente.

La trasformazione da giovane folksinger vivace e sfrontato, una versione in carne, ossa e berretto della Anthology of American Folk Music che la gente stava scoprendo proprio in quegli anni, a padrone assoluto del gioco si manifesta in modi grandi e piccoli. Le registrazioni dei pezzi di Woody Guthrie e Jesse Fuller fatte prima dell’arrivo a New York dimostrano che era già immerso, eccome, nella musica popolare americana e che il suo suono e la sua identità erano già in via di formazione prima ancora che si dirigesse in città. Si capisce meglio quanto prendeva e di brutto da chi lo circondava. In una prima, incerta versione di Tomorrow Is a Long Time, cita il «registratore a nastro» davanti a sé come se stesse facendo un provino per un biopic su Guthrie.

Chi ha assistito alle sue prime esibizioni a New York lo conferma: Dylan era spiritoso e il senso dell’umorismo è un’altra rivelazione del box set. Spesso conquista il pubblico con aneddoti sull’essere quasi investito da un autobus, sull’idea delle scalette scritte («Non credo molto nelle liste… sono andato in giro copiando tutte le migliori canzoni che trovavo dalle liste degli altri») o su un ridicolo film pseudo-hootenanny appena visto a Times Square («Non ditelo a nessuno», dice e aggiunge, «42esima Strada, una via molto hip»). È un Dylan loquace e affabile, un lato che raramente – se non mai – si è più visto sul palco. Si intravedono anche segnali del suo futuro post folk in un pezzo autografo titolato I Got a New Girl che canta come se stesse già preparando Self Portrait e nel pezzo al pianoforte Bob Dylan’s New Orleans Rag, outtake di The Times They Are A-Changin’ dal cuore rock and roll. Non era purista, nemmeno dall’inizio.

Bob Dylan - Boots of Spanish Leather (The Times They Are A-Changin' Alternate Take - Official Audio)

Man mano che ci si avvicina alla conclusione del box set, ovvero alla registrazione integrale del concerto all’autunno 1963 alla Carnegie Hall che lo ha consacrato, Dylan mostra una sensibilità sempre più spiccata per i traditional. Non solo: la rapidità con cui i suoi pezzi diventano maturi ha qualcosa di sbalorditivo. La trasformazione di Tomorrow Is a Long Time nella struggente bellezza che conosciamo è notevole e la versione di The Lonesome Death of Hattie Carroll, registrata a casa d’un amico a Los Angeles, è magnetica. Quando arriva alla Carnegie Hall, Dylan ha tre album alle spalle ed è padrone della propria voce, dei propri brani, della propria presenza. Canta North Country Blues come se appartenesse davvero a quella famiglia di minatori, per poi passare a A Hard Rain’s A-Gonna Fall in un modo che sembra quasi dirci: quello era il folk di allora, questo è il folk di adesso, e fatto come voglio io.

Il concerto occupa gli ultimi due dischi di Through the Open Window ed è sorprendente e rivelatore. Il pubblico sta in silenzio durante le canzoni di protesta e ride quando Dylan racconta di un accademico che non ha afferrato il senso di Blowin’ in the Wind («E questo tizio diventerà insegnante!»). Si sente l’adorazione che la gente prova per lui ed è giustificata: si tratta di uno dei migliori concerti (ancora inediti) di Dylan. In quel momento, in quella sera, l’idea che avrebbe presto abbandonato quel modo di fare musica e alcune di quelle canzoni – ad esempio non suonerà mai più Lay Down Your Weary Tune – era probabilmente inconcepibile. Eppure è andato avanti, ha elettrificato la sua musica poco più di un anno e mezzo dopo e si è messo alle spalle la stagione della Carnegie Hall. E del resto lo dice proprio Through the Open Window che Dylan è sempre stato sul punto di chiudere una finestra e spalancarne un’altra, affacciata su un mondo nuovo.

Da Rolling Stone US.

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