Rolling Stone Italia

È sensibile, è sincero, è innocuo, è banale, è il cantautore più popolare del mondo

La masterclass di Ed Sheeran su come fare un disco pop generico e cercare di restare in vetta. La recensione di ‘Play’

Foto press

C’è una cosa giustissima che Ed Sheeran dice a Zane Lowe nell’intervista pubblicata pochi giorni fa su Apple Music. Dice in buona sostanza che nell’industria musicale c’è sempre stata una divisione netta fra i cantanti fighi e quelli non fighi e che lui ovviamente ha sempre fatto parte di quest’ultima categoria. È vero ed è la forza e la debolezza del cantautore vivente più popolare del mondo grazie a 93 e passa milioni di ascoltatori mensili su Spotify (roba che neanche Taylor Swift), un tour mondiale lungo tre anni visto da quasi sette milioni di persone, un successo discografico più che decennale, la simpatia diffusa per quest’inglese che scrive canzoni romanticissime e si veste come il tuo vicino di casa.

Con la sua mancanza di pretese, le canzoni sempre molto dirette, la condivisione di sentimenti a cui tutti possono compartecipare e il romanticismo largo, Sheeran ha contribuito a strappare il pop dall’immaginario delle star irraggiungibili, portandolo tra la gente comune. La sua insistenza su un’idea di trasparenza senza fantasia, il gusto conservatore, la mancanza d’immaginazione e qualche passaggio stucchevole l’hanno relegato nel gruppo di quelli che non possono, non riescono, non vogliono spostare i confini del pop un po’ più in là. I ragazzi fighi ti stupiscono e ti fanno pensare che non sarai mai uno di loro, Sheeran ti rassicura e t’illude: non serve una grande personalità, guarda, lassù sul palco c’è uno che ti somiglia.

Play inaugura il ciclo Stereo dopo quello noto come Mathematics. Se quest’ultimo era caratterizzato dai simboli algebrici usati come titoli, la nuova serie di dischi userà come titoli i nomi dei pulsanti per azionare la musica, Rewind, Pause, Fast Forward. Con l’idea pare seria di pubblicare un disco postumo intitolato Eject, quando verrà l’ora. Per ora siamo a Play che rientra perfettamente nell’ambito del pop generico e inoffensivo, ma facile e confessionale che ha fatto la fortuna di Sheeran. L’idea era fare un disco tutto «gioia e technicolor». Lo scrive persino sulla copertina esteticamente orrenda: “Play is leaving the past behind. Play is colorful. Play is dancing. Play is nostalgic”. L’intenzione insomma era fare un album colorato in reazione a un periodo nero. E così nel prologo Opening accenna alla morte dell’amico Jamal Edwards, alla malattia della moglie Cherry Seaborn durante la gravidanza (“Ho pianto sulla tomba di mio fratello, ho stretto la mano al chirurgo di mia moglie”), alle cause per plagio e canta che c’è un tempo per il lutto e il dolore e uno per riabbracciare la vita. Anzi, “per correre tra le braccia della speranza”.

Sì, canta proprio così: correre tra le braccia della speranza. Possibile che non ci sia un modo di scrivere di certe cose meno retorico di questa e di altre frasette motivazionali? Poi per forza, e questo lo canta lui nella parte rappata della canzone, Sheeran non è “la popstar che dicono di preferire”. Ma lui non s’arrende: “Sono stato tanto tempo in cima, ma non mi adagio sugli allori”. È l’autobiografismo che piace tanto, la storia della star che lotta per arrivare in vetta e per restarci perché “se guardo di sotto, vedo i rimpiazzi” che lo incalzano. Al New York Times ha detto che si sente un punching ball del pop come lo sono stati Phil Collins e Chris Martin, solo che il cantante dei Coldplay sarebbe andato oltre quella fase (non ne sono tanto sicuro), mentre lui c’è ancora dentro. E quindi nella canzone-manifesto Opening scrive che “ho suonato in tutti gli stadi, ma lo farei comunque gratis (Live Nation, prendete nota, qua si possono risparmiare un sacco di quattrini, nda), devo mantenere alto lo standard, essere il migliore in assoluto, la stampa ha ancora dei problemi con me”. Una volta l’autoreferenzialità era un peccato mortale e la stampa aveva problemi, sì, coi musicisti che raccontavano quant’è difficile la loro vita d’artisti d’immenso successo, però incompresi da una minoranza di persone. Ora quei musicisti ricevono applausi, solidarietà, milioni di stream.

Altrove Sheeran fa Sheeran e cioè racconta le sue storie spesso sentimentali in pezzi che funzionano o funzionerebbero anche col solo accompagnamento di una chitarra. Come quello sul ritrovamento del vecchio iPhone e la lettura dei messaggi rimasti lì per un decennio che porta con sé la tentazione di pensare troppo al passato, ovvero il bello e il brutto della nostalgia citata in copertina. O come la canzone d’amore per la moglie Camera, con un ritornello che rimanda a certe ballatone dei gruppi di arena rock anni ’70-’80 e nelle strofe frasi come “dovresti vedere come le stelle illuminano la tua splendida silhouette”. Tra dialoghi amorosi banali, inni a mettersi alle spalle il peggio e canzoni come In Other Words che faranno furore ai ricevimenti dei matrimoni, manca qualcosa di non dico sorprendente, ma di stimolante o curioso, forse giusto il contrasto fra il ritmo leggero di A Little More e il ritornello che inizia con “ti amavo, ora ogni giorno ti odio un po’ di più” e poco altro. In Don’t Look Down c’è Fred Again, ma della canzone si potrebbe dire quel che va detto delle parti rappate da Sheeran: è ok, ma non è il suo.

Il gusto melodico è quello tipico del cantautore, che quando canta pezzi romantici come The Vow, sicura colonna sonora dei rinnovi delle promesse matrimoniali, dà al pubblico esattamente quel che il pubblico vuole. E aggiunge, nel caso non abbiate capito il concetto che sta alla base dell’album, che “abbiamo vissuto momenti difficili, ma ringrazio la strada impervia che mi ha condotto tra le tue braccia e la mia promessa è di amarti e non lasciarti mai andare”. È una canzone fatta bene, Sheeran ha evidentemente talento per i cliché del sentimentalismo, non avrà una grande fantasia armonica o un gusto raffinato per gli arrangiamenti, ma sa come si scrive, però ti fa venire voglia di mettere su i Dead Kennedys. E comunque, almeno per il mio gusto, meglio così che quando posa da cittadino del mondo.

Sì, perché l’altra cosa che Sheeran fa in Play è «esplorare le culture dei Paesi in cui ero in tour». È l’altro filone narrativo usato per raccontare il disco, ma le canzoni in cui lo si sente sono una minoranza, vedi ad esempio Sapphire e Azizam, la prima frutto del viaggio fatto in India, la seconda fatta con Ilya Salmanzadeh, produttore svedese nato in Iran (e, maledizione, una volta che la senti, il ritornello continua a risuonarti in testa). Il punto, però, è che Sheeran non è Paul Simon e nemmeno Peter Gabriel, il risultato tende ad essere banale, un mix di pop e world music da centro commerciale. Non è un fatto etico, senza una qualche forma d’ibridazione e appropriazione non avremmo avuto i Led Zeppelin e nemmeno il rock’n’roll di Elvis, quindi evviva Sheeran che va in India e che peraltro coinvolge cantanti e musicisti locali. Non è un fatto etico, dicevo, ma estetico. Sheeran usa le musiche di derivazione tradizionale come esotismi, non mette a punto un linguaggio sonoro coerente ed eccitante. E così, tra pezzi globaleggianti e dichiarazioni d’amore, Play è il disco col quale Sheeran torna al pop per restare lassù in cima. È pop al microonde, servito però con entusiasmo e sincerità che oggi sono monete pregiate.

Iscriviti
Exit mobile version