Fatico a immaginare il gruppo rock più popolare del pianeta che nel 2025 prende una hit e la tira per 20 minuti. Lo facevano i Dire Straits nel 1985 espandendo Tunnel of Love con un’introduzione drammatica, sezioni d’atmosfera, ricapitolazioni dei temi melodici, assoli, la presentazione dei musicisti, citazioni di altre composizioni, ma soprattutto lì e altrove un’idea di musica narrativa, di strumenti che raccontano cose. E sì, erano loro il gruppo più popolare del pianeta.
L’album della svolta digitale Brothers in Arms, diviso tra rock di largo consumo e sofisticatezze musicali americaneggianti, era in testa alle classifiche. Ha venduto oltre 30 milioni di copie nel mondo, più o meno quanto Born in the U.S.A. e The Wall, pur non avendo lo stesso status. Il tour 1985-86 è durato un anno e un giorno, 248 concerti sold out di fronte a oltre due milioni e mezzo di persone nei palazzetti e negli stadi di 23 Paesi. Non in Italia, da cui la band s’è tenuta alla larga avendo vissuto esperienze inenarrabili.
Di uno dei grandi tour all’epoca, probabilmente il più grande di quel biennio in fatto di durata e numero di concerti, sono stati filmati per la tv l’ultimo show all’Entertainment Centre di Sydney e uno alla Wembley Arena di Londra. Sono stati registrati in modo professionale anche gli audio di Cleveland, San Antonio e Houston, ma al di là dei bootleg non è stato pubblicato ufficialmente nulla. Fino a oggi.
L’ennesima riedizione di Brothers in Arms, questa volta per il quarantennale, contiene San Antonio Live in 85, registrazione integrale effettuata per il programma radiofonico King Biscuit Flower Hour del concerto del 16 agosto 1985 nella città texana, già peraltro disponibile su Wolfgang’s Vault (sento già le lamentele di superfan e collezionisti: dateci le session in studio, tenetevi i live che conosciamo). È stata preferita all’esibizione gemella del giorno dopo a Houston per via della resa migliore dei microfoni d’ambiente. In altre parole, si sente meglio il pubblico, così dice Guy Fletcher, il tastierista della band che l’ha mixato. Ci sono momenti superlativi e altri meno, si vorrebbe a tratti più energia e più cattiveria, ma si tratta pur sempre di un grande gruppo e di un gran concerto.
Nell’autobiografia il bassista John Illsley paragona la band e lo staff di 80 elementi che girava il mondo a un piccolo esercito e ricorda la tournée come «inesorabile e sfiancante». Un confronto con un megatour recente: i Dire Straits hanno fatto 100 concerti in più di quelli fatti da Taylor Swift nell’Eras Tour, ma hanno suonato davanti a un quarto delle persone andate a vedere la popstar. Più concerti in posti più piccoli, più fatica. Dopo un’altra tournée mastodontica, quella di On Every Street, Mark Knopfler ha deciso che ne aveva abbastanza di quel circo, definizione sua.
Negli Stati Uniti le distanze erano tali che c’erano due crew che viaggiavano contemporaneamente. La band arrivava sul luogo del concerto a metà pomeriggio. Faceva il soundcheck usando i monitor, non gli auricolari perché «volevamo sentire per bene, azzeccare i livelli giusti per una grande arena». Era uno di quei tour in cui ogni giornata si ripete pressoché identica, a volte anche sul palco visti i pochi cambiamenti nelle set list. «Era come nel film Ricomincio da capo», ricorda il bassista. E niente divisimi. Il rituale di fine concerto prevedeva una riunione della squadra al completo nello spazio approntato per la cena. «Non c’era una gerarchia, né un posto a capotavola; ognuno afferrava semplicemente un piatto e una sedia. Mi piaceva questo rituale, il suo cameratismo, la solidarietà che nasceva dal far parte della stessa squadra e lavorare insieme per la stessa causa».
Dal punto di vista musicale i Dire Straits non erano più quelli di tre anni prima, figuriamoci quelli degli esordi. Dal vivo hanno sempre avuto la tendenza a espandere i pezzi. Se già nel tour di Love Over Gold Mark Knopfler aveva allargato formazione e parti strumentali (Tunnel of Love durava “solo” un quarto d’ora), ora sul palco c’erano sette musicisti determinati a trasformare canzoni da 45 giri in pezzi lunghi quanto mezza facciata di un 33. Non sono mai stati incendiari, ma il brio dei primi anni si era lievemente sopito, anche se quando corrono sono ancora favolosi. Spesso però se la prendevano comoda, come se le colonne sonore che Knopfler scriveva per il cinema fossero entrate nella musica del gruppo, cambiandola. Quasi tutte le esecuzioni sono arricchite da nuovi assoli di chitarra e sax o flauto, botta-e-risposta, fioriture, parti che somigliano a improvvisazioni anche se non lo sono, esercizi di fantasia che non possono essere contenuti nella durata standard d’una canzone.
Di certo ai Dire Straits piacevano le introduzioni e gli interludi d’atmosfera. Riascoltati oggi hanno qualcosa di kitsch, così come certi suoni di batteria e tastiere di questo tour risultano datati. Ma al di là di questo, San Antonio Live in 85 ci dice anzitutto che negli anni ’80 s’andava a un concerto dei Dire Straits anche per sentire musica che non s’era mai sentita prima, non per ascoltare le hit esattamente com’erano su disco. Non si andava solo per celebrare quel che l’artista aveva fatto fino a quel momento, ma anche per capire che cosa avrebbe fatto di nuovo quella sera, dove avrebbe preso la canzone e dove l’avrebbe condotta, per poi riportarla a casa nel finale. Ovviamente questo accadeva perché c’erano musicisti in grado di farlo. Era musica che parlava.
Il bello è che i Dire Straits nel 1985-86 non erano sperimentatori, ma campioni del rock commerciale, avevano appena pubblicato l’album più facile della loro storia, venivano accusati d’essersi venduti. Erano gli alfieri della digitalizzazione della musica e testimonial del compact disc, il supporto che nel giro di un paio d’anni avrebbe superato in termini di vendite il vinile aprendo una stagione d’oro per la discografia. Primo album della storia a vendere un milione di copie in quel formato, Brothers in Arms rappresenta una frattura nella storia del gruppo, ci sono un prima e un dopo. Eppure per chi non ha mai sentito prima registrazioni complete e decenti di quel tour, il live a San Antonio riduce la distanza tra i primi Dire Straits e quelli dei due album finali. A tratti è come se le canzoni di Brothers in Arms venissero portate nel repertorio dei vecchi Dire Straits e non viceversa.
All’apice del successo, i Dire Straits erano un gruppo di musicisti di talento, ma fatalmente privi di fascino, non solo sganciati dalle tendenze musicali, ma anche insensibili all’idea di rock come rappresentanza sociale, men che meno come controcultura. È musica per la musica e quello dei Dire Straits è rock senz’aura e demitizzato. È rock come mestiere, nel bene e nel male. È un’arte borghese, artigianato musicale da stadio, super professionismo.
«Ci siamo dimostrati all’altezza delle aspettative per molto tempo, continuando sempre a migliorare, invece di abbandonarci a un lento declino e alla fine collassare, soprattutto perché ci siamo presi cura di noi», scrive Illsley a proposito del tour e della capacità della band di restare in piedi nonostante quella routine mostruosa. «Non abbiamo mai affondato la faccia in un mucchio di coca, non abbiamo mai sfasciato un bar, mai lanciato un televisore dalla finestra, non siamo mai finiti con la macchina dentro una piscina e non abbiamo mai scarriolato un harem di escort nelle nostre stanze d’albergo. Forse non sarà molto rock’n’roll, ma almeno siamo stati in grado di continuare a suonare».
Diventando enormi e affinando sempre più le loro canzoni, i Dire Straits avevano guadagnato qualcosa e qualcosa avevano perso. Verso la fine del disco dal vivo arriva Wild West End ed è una piccola sorpresa. Non è una hit ed è strano trovarla infilata tra due classici come Money for Nothing e Tunnel of Love. È il racconto quasi incantato di una passeggiata di Knopfler nel West End londinese, un elenco di luoghi e situazioni famigliari ai Dire Straits ai tempi degli esordi, la fotografia di un angolo di mondo perduto e vagamente decadente. Nel 1978 era una cartolina sonora da quattro minuti e mezzo, a San Antonio Knopfler non resiste alla tentazione di espanderla fino a farla durare nove minuti con un assolo introduttivo di sax, parti del testo interpretate in modo lievemente trascinato, i coretti dei musicisti in una sezione in cui il tempo sembra sospeso.
Anche in questa versione extralarge resta tutto sommato una canzone piccola, memoria d’un tempo in cui i Dire Straits non stavano diventando un circo, ma erano ancora una band di dopolavoristi. Ci sono il negozio dove Knopfler compra il pick-up per la chitarra, la caffetteria, le go-go dancers, il gioco d’azzardo, gli approcci per strada, la conducente del 19 che ha lo smalto rosa sulle unghie dei piedi e le dita annerite dalle banconote, c’è lo sguardo maschile desiderante. E prima del grande, trascendente assolo aggiunto nella versione dal vivo ci sono parole che non c’erano nell’originale. Le cose, dice Knopfler, non sono più quelle d’una volta. Questa Wild West End è dolce e amara allo stesso tempo, è il canto di tutto quello che la band nel 1985 aveva perso.
