Black Keys, la recensione di Ohio Players | Rolling Stone Italia
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Volevate un disco dei Black Keys con Beck? Ecco ‘Ohio Players’

Questa volta la macchina del tempo di Auerbach e Carney, con un piccolo aiuto di Mr. Loser, si ferma agli anni ’90. È quasi l’album che il gruppo e l’uomo di ‘Odelay’ avrebbero voluto fare una ventina d’anni fa

Volevate un disco dei Black Keys con Beck? Ecco ‘Ohio Players’

Black Keys

Foto: Jim Herrington

È un viaggio nel tempo quello che fanno i Black Keys nel dodicesimo album, recuperando un progetto che avevano abbozzato una ventina d’anni fa. Si era all’inizio degli anni 2000 e mentre la loro fama di duo garage rock emergente usciva dai confini di Akron, Ohio, Dan Auerbach e Patrick Carney aprivano per Beck. Ne nasceva un’intesa tale da spingere i tre a pensare di fare un album insieme.

In un certo senso, Ohio Players è figlio di quell’idea. È il lavoro più ricco di collaborazioni dei Keys, il che è tutto dire trattandosi d’una band che ha lavorato con chiunque, dalle rock star ai rapper ai grandi del Delta blues. E sì, in metà dei brani c’è Beck, oltre ad amici e colleghi come Noel Gallagher, Dan The Automator e il superproduttore Greg Kurstin (ai tempi tastierista del tour di Beck). Prendete la traccia d’apertura This Is Nowhere: è la perfetta via di mezzo tra il boogie post industriale dei Black Keys e il boom-bap rilassato perfezionato da Beck nel classico del 1996 Odelay.

Auerbach e Carney evocano un feeling anni ’90 nello shuffle euforico alla Happy Mondays/Primal Scream di Beautiful People (Stay High). È scritta con Beck, che è la voce principale di Paper Crown, pezzo che contiene anche una strofa rappata da Juicy J dei Three Six Mafia, leggenda dell’hip hop di Memphis, e rievoca la vecchia utopia del crossover fra rock alternativo e hip hop. E poi c’è On the Game, con assolo di chitarra e cori di Gallagher, una bombetta Brit pop.

L’idea, dicono i Keys, era ricreare l’atmosfera di quelle che chiamano record hangs, feste che tengono un po’ in tutto mondo durante le quali suonano vecchi 45 giri. Che abbiano impostato la loro macchina del tempo fino per ritrovarsi nella Memphis degli anni ’60, nel Midwest degli ’70 o a Manchester e Los Angeles nei ’90, l’album scorre come un dj set ben calibrato.

Non che l’album sia solo questo. Anzi, è la raccolta di canzoni più a fuoco che i Keys hanno pubblicato, o giù di lì. Don’t Let Me Go va avanti con un ritmo incalzante per volare verso il paradiso del soul sulle ali del falsetto, mentre Gallagher torna per aggiungere un tocco di grandiosità chitarristica all’ispiratissima Only Love Matters. Per chi cerca il classico blues revival dei Keys c’è la grintosa Please Me Til I’m Satisfied, e poi i due regalano una pepita da crate digger con una cover delicata dello standard soul del ’68 firmato da William Bell e Booker T. Jones I Forgot to Be Your Lover.

Per molti versi, quelli di Ohio Players sono i Black Keys come avrebbero potuto essere se avessero iniziato a fare musica assieme nell’atmosfera eclettica di metà/fine anni ’90, quando per intenderci Beck era al top, e non nel bel mezzo del revival rock d’inizio anni 2000. Era un periodo in cui i generi (indie rock, hip hop, trip hop, rave, exotica) si fondevano fino a diventare oro, anzi mellow gold. Non sarà un’epoca mitica come quella del Delta del Mississippi o gli anni ’70 dei grandi concerti con l’aria satura di marijuana, ma è più aderente alla natura di Auerbach e Carney. Ecco perché in Ohio Players i due sono al top.

Da Rolling Stone US.