La recensione di 'Una lunghissima ombra' di Andrea Laszlo De Simone| Rolling Stone Italia
una lunghissima ombra

Ascoltare l’ultimo disco di Andrea Laszlo De Simone in una camera iperbarica dell’anima

È l'esperienza che abbiamo vissuto a Roma all'interno di una cupola geodetica dall’audio spazializzato, installazione artistica voluta dall'artista torinese. Ecco come è andata

Ascoltare l’ultimo disco di Andrea Laszlo De Simone in una camera iperbarica dell’anima

Andrea Laszlo De Simone

Foto: Giovanni Canitano

All’Angelo Mai, in quell’angolo di viale delle Terme di Caracalla dove una volta si andava per ascoltare concerti punk, assistere a reading marxisti o semplicemente fumare in pace tra i pini di Roma, ci si è ritrovati, qualche sera fa, dentro una cupola geodetica dall’audio spazializzato, con le emozioni frantumate. Non c’erano cellulari accesi, né birre, né possibilità di selfie: solo un piccolo gruppo di persone ferme, immobili, sedute su cuscini neri, come in attesa che qualcuno dicesse qualcosa di definitivo sull’esistenza, o che almeno spiegasse perché continuiamo a infliggerci del male da soli. Non l’ha fatto nessuno, naturalmente, ma almeno il nuovo disco di Andrea Laszlo De Simone (di cui qui potete leggere la nostra ultima cover story) ci è andato vicino.

Il film – anzi, il lyric movie – che accompagna per i suoi sessantasette minuti Una lunghissima ombra si apre con una visuale urbana dall’alto: le luci delle auto nel traffico disegnano una rete nervosa, un sistema linfatico cittadino che pulsa a intermittenza, come se la città fosse viva, cosciente e anche un po’ preoccupata. Le luci che abbiamo lasciato, fuori dalla cupola, nel chiasso – le automobili in fila indiana, i fanali di stop che si accendono e spengono – sono le stesse che vediamo proiettate dentro, ma il loro significato è mutato, alterato, disinnescato. Ora non sono più il segnale di una direzione o di un ritardo, ma una specie di linguaggio intermittente, come se avessero qualcosa da dirci in un codice Morse tutto loro. Dentro la cupola – che non è una sala da concerto e nemmeno un rifugio, ma piuttosto una camera oscura in cui lo sviluppo non riguarda una pellicola ma la percezione stessa – quelle stesse luci sembrano proiettate dalla memoria e non dal presente. Non sappiamo più se le stiamo osservando o se le stiamo ricordando. Forse sono immagini di qualcosa che è accaduto prima, o che potrebbe accadere solo qui dentro, mentre la musica di Andrea Laszlo si diffonde in modo così avvolgente da farci dubitare della nostra posizione nello spazio. Sotto la cupola, il mondo non è più reale. Ma anche il reale, forse, non è mai stato davvero il mondo.

Questo igloo è un rifugio per chi, da piccolo, aveva paura del buio e da adulto ha paura della luce. La luce che, nel linguaggio simbolico di Una lunghissima ombra, è lo sguardo fisso sulla realtà. L’oggetto, suggerisce De Simone, sono i testi; l’ombra è la musica. E noi, lì dentro, eravamo l’ombra dell’ombra: una comunità temporanea di coscienze galleggianti che, invece di chiedersi chi eravamo, si chiedeva cosa ci stesse dominando — “Cosa sappiamo di noi? / Cosa ci illumina? / Cosa ci spinge? / Cosa ci domina?” (“Non è reale”).

«Una lunghissima ombra è un progetto audiovisivo in cui ho provato a portare alla luce i pensieri intrusivi», dichiara Laszlo. Quelli che ci attraversano mentre, per esempio, “spremono la carne a fondo” (Ricordo tattile); quando “ci abbandoniamo a vivere il fiore / avaro della tua primavera” (La notte), o mentre, seduti sotto un igloo montato all’Angelo Mai (che più che un’installazione artistica sembra una camera iperbarica dell’anima), ci chiediamo se gli altri stiano davvero ascoltando o stiano solo cercando di capire se l’odore che si sente viene dal sintetizzatore o da un maglione di lana bagnato dimenticato su una sedia. Pensieri che non bussano, non aspettano, si insinuano tra i timpani e i sottotitoli, si agganciano ai fiati e ai filati sintetici e restano lì, fermi, finché qualcuno – forse Andrea, forse Laszlo, forse nessuno – non li mette in musica.

Nel mondo desimoniano, la malinconia non è un vizio estetico ma una necessità biologica. Prendiamo Ricordo tattile, che non è una canzone. ma un’implosione: “Dita / chiedono che sia lungo il giorno / per ricordarti bene”, canta lui, con la voce di chi ha smesso di aspettare risposte ma continua a porre domande. I ricordi non sono mai neutri: filtrano “come fiori incolti / fra le tue rovine”. La memoria è una ferita che fiorisce.

La struttura dell’album è quella di una mappa interiore: diciassette tracce, alcune cantate, altre strumentali, che funzionano come interludi del pensiero o pause della mente tra un dolore e l’altro. Neon, ad esempio, è solo un respiro di synth e sax, ma ha il peso specifico di un trauma non rielaborato. “Il neon per me è l’inquietudine”, scrive Laszlo nelle sue note alle tracce. E chi ha mai fatto pace con una luce al neon?

La notte è una delle vette emotive del disco. un luogo più che una canzone, dove le ombre non servono più a nascondere ma a rivelare. “La notte / cela i ladri / e cela anche un fiore / sfuggito al giorno”: il ladro e il fiore sono la stessa cosa, entrambi rubano luce e la trattengono. È una canzone che parla con voce antica ma si muove come un sogno recente, di quelli che ricordiamo a metà, quando ci svegliamo con la sensazione un po’ rassicurante e un po’ inquietante che qualcuno abbia pregato al posto nostro. Quando De Simone canta “Se c’è qualcuno che non ha paura / io prego mi soccorra”: non sta supplicando, ma eseguendo una prova del nove per un’addizione impossibile di fiducia; per verificare se, da qualche parte, esista ancora qualcuno capace di rispondere a una nostra prece sincera.

Le confessioni più dure arrivano con Quando e Un momento migliore. In Quando, l’autore si accusa di tutto: “È colpa dell’amore / ruvido / come me / se ormai non voglio più morire”. Ogni strofa è un atto d’accusa che non risparmia nessuno, nemmeno l’istinto, il silenzio, il rumore. In Un momento migliore, il punto moralmente più basso del disco, l’autodenuncia si fa definitiva: “Ho dato amore, ma non son stato sincero / e ho mentito senza rimorso alcuno”. Non c’è redenzione, ma almeno c’è la vergogna.

È interessante che il disco sia costellato di brani dedicati ai figli. In Per te, scritta per la figlia, rasentando per un momento il jovanottismo, la lista di immagini è un catalogo affettivo: “Tu sei per me / come la luna nelle sere d’estate / le mattine assolate / sulle giostre alla fiera”. Ma quelle giostre, ormai, girano in playback, lente come la Piovra da luna park di festa patronale che si mostra in un altro momento del film — non più un divertimento ma un’allucinazione condivisa, un monumento postumo al nostro desiderio di innocenza.

Tutto il disco è attraversato da un’idea di trasparenza opaca: si dice tutto ma non si spiega niente. Planando sui raggi del sole è l’ultima apertura, la prima speranza: “Se la ragione / ti porta in dote / tutti i suoi lumi / tu chiudi gli occhi / e soffia”. Sono i versi chiave del disco, il manifesto di una poetica anti-cognitiva, dove il pensiero non serve se non a dimostrarti che pensare è un errore.

E poi viene Non è reale, la canzone che più di tutte riassume il cuore del progetto, a sciorinare il suo mantra alienato: “Cosa sappiamo di noi? / Cosa ci illumina? / Cosa ci spinge? / Cosa ci domina? / Non è reale”. Ripetuto ossessivamente, come un loop da fine seduta. Qui Andrea Laszlo smette di cantare per diventare puro pensiero, oppure puro dubbio.

Il brano finale, Una lunghissima ombra, è un congedo che però vale come premessa. Come se tutto il disco fosse stato costruito per arrivare lì, e lì svanire. Non ci sono grandi esplosioni, né risposte: solo un’ombra che si allunga, lentamente, fino a scomparire.

Quando si esce dalla cupola, fuori è ancora Roma. Il traffico non si è fermato per rispetto, né per distrazione: ha semplicemente continuato a fare quello che fa sempre — scorrere, accelerare, clacsonare come se fosse un gesto di senso compiuto. I semafori lampeggiano con l’indifferenza tipica delle cose elettriche, i motorini impennano l’aria umida delle sette di sera, e le ombre — le vere protagoniste di questo disco — continuano ad allungarsi sui marciapiedi, ostinate come le risposte che non arrivano mai. Ma qualcosa è successo. Non è un’illuminazione, neanche una catarsi, figurarsi una guarigione: qualcosa di più sottile, di più difficile da raccontare: uno spostamento di attenzione, un disallineamento interiore. Come quando si rientra in casa e si ha la strana sensazione che qualcuno, in nostra assenza, abbia spostato appena un mobile, sbilanciato un quadro, piegato diversamente il tempo.

Forse abbiamo capito che restare dentro la domanda, invece di scappare verso una risposta qualsiasi, è un atto di coraggio, o almeno uno di grazia. Forse abbiamo imparato a riconoscere la voce di quei pensieri che ci parlano mentre crediamo di pensare ad altro. Forse, come suggerisce De Simone nei suoi mantra ossessivi, è tutto un gioco di rifrazioni, di illusioni tenaci, di ombre troppo lunghe per capire da quale palo o coscienza partano.

Allora torniamo a casa, attraversando le stesse strade viste dall’alto all’inizio del film, e ci accorgiamo che, in fondo, se c’è una verità in questo disco, è quella che ti sfugge un attimo prima di addormentarti. Quella che ti bisbiglia, come in sogno: “Non è reale”.

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