Nel turbinìo di opinioni che circonda lo stato attuale degli Arcade Fire emergono quattro schieramenti: chi li ama nonostante il disorientamento dovuto allo scandalo del 2022 sulle presunte molestie sessuali di Win Butler; chi li odia per lo stesso motivo; chi, con piglio aristocratico, li ha sempre un po’ snobbati (al di là delle vicende emerse tre anni fa), nutrendo una cultura del sospetto verso questi “fricchettoni” capaci, con soli due album (Funeral e Neon Bible) di varcare la soglia del gotha del rock grazie a mentori come David Bowie e David Byrne. E poi ci sono quelli che ne sono rimasti stregati agli albori, quando il loro universo musicale sembrava provenire da un altrove inesplicabile, e cercano ancora di comprenderne il percorso fra alti (Reflektor), medi (WE) e bassi (Everything Now) – malgrado sia grande la confusione sotto il cielo di Montréal.
Già, perché Pink Elephant, in uscita il 9 maggio e preceduto dal singolo omonimo e da Year of The Snake, prodotto dal guru del sound del rock anni ’80 Daniel Lanois, è anche il primo senza l’importante apporto creativo di Will Butler, fratello minore di Win e “funambolo” del gruppo. Scompare dai crediti anche Owen Pallett, storico collaboratore e arrangiatore della band. Solo in tre tracce del nuovo album suonano insieme i membri storici: Richard Reed Parry (assente dal tour per congedo di paternità), Tim Kingsbury e Jeremy Gara. Oltre ad alcuni performer occasionali (come il batterista jazz Brian Blade) ci sono anche contributi degli altri musicisti affiliati da tempo: la veterana Sarah Neufeld e Dan Boeckner. Il polistrumentista Paul Beaubrun è invece presente nel tour, partito ufficiosamente dal Luck Reunion 2025 di Willie Nelson, tenutosi il 13 marzo scorso.
Ma basta osservare il cartellone promozionale di Spotify sui social della band per capire che questo è, di fatto, il primo disco di Régine Chassagne e Win Butler “con” gli Arcade Fire. È soprattutto il primo disco dopo il clamore globale e del tutto inaspettato suscitato dal caso dei presunti abusi sessuali nei confronti di Win Butler: nonostante il cantante abbia sempre negato le accuse mosse da cinque persone, affermando si trattasse di relazioni consensuali e in ogni caso scusandosi per le sofferenze causate, la vicenda ha profondamente scosso la credibilità di una band da sempre impegnata a promuovere valori sociali e politici liberal e a creare un forte legame di fiducia con i follower.
La vera novità artistica di Pink Elephant è ovviamente la presenza di Daniel Lanois, il celebre produttore canadese che, tra gli anni ’80 e ’90, ha definito l’estetica rock collaborando con gli U2 di The Joshua Tree e Achtung Baby, Peter Gabriel (So) e Bob Dylan (Oh Mercy). Open Your Heart or Die Trying, Beyond Salvation e She Cries Diamond Rain sono tre intermezzi strumentali che fungono da ponti tra le canzoni vere e proprie, costruiti sul modello delle stratificazioni sonore che Lanois elaborò con Brian Eno per lavori ambient come Apollo: Atmospheres and Soundtracks.
L’arpeggio della title track, nato dal tentativo mai riuscito del frontman di emulare il fingerpicking di Elizabeth Cotton in Freight Train, emerge dalla polvere cosmica come una navicella spaziale, e il testo recita: “Your fake friends they go out dancing / But you’re too busy neuromancing”. Il verso gioca con il titolo del romanzo Neuromante di William Gibson, uno dei preferiti di Butler. «Siamo già metà uomini e metà macchine», ha chiosato il frontman citando alcune tesi del classico della letteratura cyberpunk.
In Year of the Snake, pubblicizzato da un video psichedelico firmato da David Wilson e dal video artist Mark Prendergast, Lanois comincia a mescolare le carte, spargendo loop ed effetti sonori, mentre Régine s’impossessa del microfono, prima di cederlo al marito, in un crescendo che ricorda l’epica dei dischi degli anni Zero. “Non fare quello che dovresti / È una stagione di cambiamenti / e se ti senti strano / è probabilmente un bene” potrebbe essere l’aforisma che spiega in due righe il senso di Pink Elephant. Special guest Micah Nelson, figlio di Willie.
Circle of Trust miscela in slow motion il beat di Sweet Dreams e l’incedere di It’s Raining Men (versione di Geri Halliwell), pestando come un classico dancefloor anni ’80 con qualche anelito verso i ’90. Sfocia decisamente nel decennio del grunge Alien Nation, che scatena i pitch e i trucchi di scena del big beat evocando party alla Chemical Brothers, Prodigy e Fatboy Slim. Nei cameo del brano c’è Eddie Butler, il figlio di Win e Régine nato nel 2013, dieci anni dopo il loro matrimonio.
I Love Her Shadow è un momento di nostalgia claustrofobica, sospeso tra l’epica di The Suburbs e puntellato nel finale da inserti sonori in stile videogioco rétro; Ride or Die riecheggia Stand by Me e si ispira a Tonada de luna llena di Simón Díaz (1974), la canzone che Butler ha ascoltato di più durante il 2024; Stuck in My Head, con un crescendo quasi in stile Joy Division, cerca di richiamare la cifra espressiva di Neon Bible.
L’unico brano che davvero si avvicina allo spirito primordiale degli Arcade Fire non è inserito nel disco. Si tratta del remake di Cars and Telephone, il primo demo presentato da Win a Régine all’inizio del nuovo millennio, quando l’embrione degli Arcade Fire stava prendendo forma. Lo si può ascoltare sulla app Trust, un mini-social pensato ad hoc per gli smartphone dei fedelissimi.
L’inevitabile filigrana di Pink Elephant è il tumulto morale, ma ridurre l’album a cronaca sarebbe un torto. La title track esplora il paradosso per cui più cerchi di non pensare a qualcosa e più quel pensiero si impone alla mente. Potrebbe far pensare, appunto, a tutto quel che è successo e al fatto che sia impossibile separare etica ed estetica, l’arte e l’artista, ma in realtà è tutt’altro. «L’elefante rosa non è che un simbolo della mia depressione», ha detto Butler in uno dei contenuti prodotti dalla app del disco. Nemmeno Year of the Snake allude alle accuse, ma trae ispirazione dall’osservazione di un serpente durante una notte di luna rosa o dal calendario cinese, simbolo di trasformazione.
Di sicuro il cambiamento è la costante di ogni opera artistica. Ed è forse l’unico modo per sopravvivere per tutti noi. Sette album, sette canzoni, sette band è una specie di sintesi numerologica affidata ai microfoni della fantomatica radio Santa Pirata, sempre sull’app, da moglie e marito. La verità è che il settimo album dell’ensemble di Montréal (anche se Win Butler e Régine Chassagne vivono ormai da tempo a New Orleans) è un disco bello e incompiuto che lascia un po’ di amaro in bocca.
Le canzoni, ricche di potenziale, si dissolvono, non esplodono, non sorprendono come avrebbero potuto. In telecronaca calcistica diremmo: manca il guizzo, il dribbling. E magari la remuntada. C’è una sorta di ricerca ipnotica, troppo geometrica, troppo “mentale”. Forse è una fuga dalla realtà, un tentativo di elaborare qualcosa che è sfuggito di mano. Gli Arcade Fire erano gli Arcade Fire perché la musica che facevano era arcana e misteriosa e non lasciava niente in sospeso. Ora il punto di domanda sono diventati loro.