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Quarant’anni senza Piero Ciampi, il più sincero di tutti

Il cantautore livornese se n’è andato il 19 gennaio 1980. Era un poeta di strada incazzato e malinconico, la scheggia impazzita della scena italiana, l’artista più selvaggio che abbiamo avuto

Con Charles Bukowski il mondo si è comportato più o meno così: l’ha ignorato e messo ai margini a lungo, mentre leggeva poesie oscene e dormiva sulle panchine, giudicandolo troppo estremo, scostante e non ruffiano per gli standard dell’epoca; l’ha rivalutato, addirittura con riconoscimenti e pregiudizi positivi, da vecchio, apprezzandone quella stessa indole maledetta che fino a poco prima, nei fatti, si era tradotta in una vita di miserie.

A Piero Ciampi la musica italiana non ha fatto in tempo a regalare lo stesso riscatto da vivo: il cantautore livornese è morto il 19 gennaio del 1980, quarant’anni fa, appena 46enne. Ancora dimenticato, ancora in guerra col Paese, ancora orgogliosamente per conto proprio. Solo poi – come da copione, insomma – sarebbe arrivata la fatidica riscoperta. E il parallelo con Hank (o coi poeti maledetti dell’Ottocento, volendo) non è assurdo: anche lui era un maudit, un alcolizzato che sputava su ogni possibilità di successo; poeta e cantante (nel senso: era entrambe le cose insieme), vagabondo con una sensibilità fuori dal comune, reietto tanto della società quanto dello spettacolo. E anche lui, dopo una carriera da cane sciolto, fatta di mitologia da live ubriachi finiti a scazzottate e litigate, è stato rivalutato ai limiti dell’idolatria, nell’ottica di come l’eccesso ne abbia segnato l’arte, così intima e inimitabile. Oggi, per dire, c’è un premio a lui dedicato (il Ciampi, appunto), per l’anniversario della scomparsa arrivano iniziative in tutta Italia, e le sue canzoni che puzzano di whisky continuano a essere adorate, citate, spiegate, reinterpretate.

Roba impensabile rispetto a ciò che ha rappresentato da vivo: un poeta di strada, incazzato e malinconico, avulso dagli applausi e dai salotti, il randagio della bohème intravista nella Parigi di fine anni ‘50 (dove lo chiamano Piero “Litaliano”) e vissuta dal porto di Livorno che l’ha cresciuto alla Milano delle case discografiche. Fra i pionieri del nostro cantautorato all’inizio dei ’60, Ciampi è stato il più ‘francese’ della schiera, e su canzoni sgangherate versava testi a mo’ di spoken e recital, collimanti con le poesie che leggeva in giro, piene – come i pezzi che scriveva, e come la sua vita – di donne impossibili, romanticismo, emarginazione, periferie, il vino, fame. Cronache sincere di un’esistenza di eccessi, con tutte le conseguenze negative che poteva comportare. Non c’è trucco, non c’è inganno: era davvero la scheggia impazzita della scena, l’osceno, e i suoi pezzi ne rappresentavano lo specchio perfetto.

Il pubblico rimaneva scandalizzato, e lui ovviamente, ne pagava il prezzo sulla pelle – nelle poche amicizie, nei magri guadagni, in un successo praticamente inesistente – come in un circolo vizioso. Ma per questo, come Bukowski, la sua immagine è infine diventata culto. Nonostante in giro si trovi quasi solo il capolavoro Andare camminare lavorare e altri discorsi (1975), e nonostante abbia stampato più 45 giri oggi sepolti che LP, per cui alcuni lavori oggi ci restano persino precluse. Nonostante, o forse proprio grazie a quest’alone di sregolatezza permanente.

Non importa, ma resta che la chiave di lettura del personaggio, al di là del mito, deve essere quella riservata a un artista che ha legato a doppia mandata una tale vita privata all’arte. Il confine – la finzione scenica – in lui non c’è mai stato, ed è per questo che ne parliamo ancora: come un unicum della nostra musica. Perché, per dire, non è che fosse un innovatore: ‘francese’, appunto, ma anche con grossi echi di contemporanei come Gino Paoli e Luigi Tenco. Di più: probabilmente ne era la versione senza filtri, la faccia scura che passava dalle risse da bar e alle notti insieme a prostitute e a clochard. Inoltre, va detto, la sua semina è rimasta isolata, non avendo stabilito un paradigma come, per esempio, un De Gregori, né un livello inarrivabile come De André. Testi tipo il vaffanculo di Adius o la grottesca dichiarazione d’intenti di Te lo faccio vedere chi sono io restano, sì, oasi popolate da goliardia, arroganza e scorze di malinconia e romanticismo, ma prendono quota soprattutto in relazione ai suoi stessi trascorsi. Un po’ come le altre opere di Ciampi, del resto, in cui i difetti (le cadute di stile, gli arrangiamenti mai davvero curati, i testi non sempre ispirati) e i pregi compongono un unico pacchetto, sensibile e violento. Spigoloso, certo, ma comunque originalissimo.

Insomma, Ciampi non è – e forse non è mai voluto essere – al livello dei giganti del cantautorato italiano, ma è l’artista più sincero e selvaggio che abbiamo avuto, e specie da questa prospettiva vale la pena ricordarlo. Al netto dei difetti, al netto di una discografia scostante.

Non saprei immaginarlo, oggi, se fosse ancora vivo: Bukowski, dopo la rivalutazione, si atteggiava da professore che sapeva sporcarsi le mani; Piero non so, mi sembra difficile vederlo così. Probabilmente riderebbe di queste celebrazioni, si assenterebbe all’ultimo, o magari si presenterebbe ubriaco marcio al cinquantennale di Andare, camminare, lavorare. Se la prenderebbe con le ristampe di routine, insulterebbe gli spettatori, con chi gli fa delle cover anche se le fa gran bene. Sicuramente desterebbe ancora scandalo, e a molti continuerebbe a non piacere, come solo lui sapeva fare. Perché questa – al di là dei poeti maledetti e del vecchio Hank – è la storia di Piero Ciampi da Livorno. “Litaliano”, il più vero dei nostri.

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