Quant’era rock il Bertolucci di ‘Io ballo da sola’ | Rolling Stone Italia
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Quant’era rock il Bertolucci di ‘Io ballo da sola’

Il film con Liv Tyler compie 25 anni. Sarebbe stato diverso senza la colonna sonora con Portishead, Hole, Mazzy Star. Doveva esserci anche 'Bachelorette' di Björk, che in un fax indirizzato al regista...

Quant’era rock il Bertolucci di ‘Io ballo da sola’

Bernardo Bertolucci sul set del film 'L'ultimo imperatore', 1987

Foto: Archivio Bertolucci

È il 29 marzo 1996, esattamente 25 anni fa oggi, quando esce nelle sale Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci, il suo quattordicesimo lungometraggio da regista e il suo undicesimo film italiano, arrivato a distanza di 15 anni dal precedente La tragedia di un uomo ridicolo del 1981, cui era seguita una trilogia di vera e propria fuga dalla nazione composta da L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto e Piccolo Buddha.

Per Bertolucci il ritorno in Italia coincide con una sorta di ritorno a sé stesso in una nuova veste, a una sorta di seconda incarnazione artistica, non a caso Io ballo da sola, ritenuto da molta critica come un film di passaggio, coincide invece con l’inizio di una nuova fase nella storia dell’opera del regista. In piena ascesa berlusconiana, Bertolucci racconta una vicenda di formazione, quella della giovane americana Lucy che, dopo la morte della madre, viene mandata da New York in Italia per trascorrere l’estate dai Grayson, una coppia di vecchi amici dei suoi genitori, il cui casale, immerso in mezzo alle vigne del Chianti, è rimasto nel tempo il ritrovo dello stesso gruppo di ex giovani artisti, scrittori e intellettuali ora più o meno disillusi dal tempo corso via. Mentre oltre questo piccolo paradiso terrestre chiuso in sé stesso come una sorta di comune del tempo che che fu, il mondo continua la propria corsa, Bertolucci costruisce una realtà altra che vorrebbe essere cosmopolita, un mondo iper-estetico che pur abitando appieno la contemporaneità, sembra esserne attraversato solo laterlamente, schivarla, rifuggira.

In questa grande famiglia, Lucy attraverserà il confine che dall’adolescenza la traghetterà nella prima età adulta, perderà la verginità, scoprirà i primi tumulti di una libertà nuova e, nondimeno, verrà a conoscenza dell’identità del suo vero padre. Se Bertolucci stesso, in una eccezionale intervista rilasciata ad Anne Wiazemsky, racconta di aver in effetti realizzato per tutta la vita film il cui leitmotiv di fondo è sempre stato il rapporto con il padre – «perdere il padre, ritrovare il padre, uccidere il padre», dice – qui c’è dell’altro ed è Bertolucci stesso a rivelare le vere origini dell’idea di Io ballo da sola: da un lato una vicenda autobiografica di formazione analoga a quella di Lucy, che lo stesso regista si trovò a osservare quindici anni prima in una dimensione collettiva simile a quella poi raccontata nel film, dall’altro la necessità di offrire una possibilità di freschezza agli spettatori dopo la trilogia di film composti, dice lui stesso, da «un’orchestra con 150 mila persone che suonano», insomma tenuti insieme da un complesso sistema di parti, spazi, realtà. Bertolucci riconduce ovviamente la freschezza a un tema che già gli era stato lateralmente caro e che ancor più caro gli sarà nella nuova fase artistica che Io ballo da sola va a inaugurare: quello della rappresentazione dei giovani, della realtà giovane contemporanea, quella, in questo caso, di una generazione di giovani che rischiano, dice lui, «di essere annientati» dalla stessa realtà che abitano.

Bernardo Bertolucci, Liv Tyler e Roberto Zibetti sul set di ‘Io ballo da sola’, estate 1995. Foto: Alessia Bulgari, Archivio Bertolucci

A incarnare questa adesione alla contemporaneità del 1996, nel film, che affronta il racconto giovanile perlopiù in una dimensione intima e intimistica, è soprattutto un aspetto formale: quello delle musiche, della colonna sonora. Nell’immaginario collettivo, a 25 anni dalla sua uscita, Io ballo da sola è per chiunque ne ricordi qualcosa, il film «con quella straordinaria colonna sonora». Parliamo effettivamente di un corpus sonoro sorprendente, soprattutto per la sua capacità di intercettare in modo preciso la musica del tempo del film, al punto da diventare l’unico elemento forte, dirompente, in grado di evocare nello spettatore l’esistenza di un tempo esterno alla vicenda, cioè il tempo della realtà e della Storia, quella che scorre lontano dalla collina di Lucy, l’elemento che ci appare talvolta scelto proprio come incarnazione assoluta di un tempo preciso, quello degli anni ’90 in cui si consuma la storia della nostra protagonista. Da Glory Box dei Portishead, a 2 Wicky degli Hooverphonic, passando per gli Axiom Funk, le centrali Rhymes of an Hour dei Mazzy Star e Rockstar delle Hole, o ancora Comet #9 degli Helium, Bertolucci, che sceglie i brani con un consulente musicale, Daniele Nerenzi, include persino un pezzo contemporaneo di Pino Daniele, O cammello ’nnammurato, singolo tratto dal disco del 1995 Non calpestare i fiori nel deserto e fa convivere tutto questo mondo d’oggi con alcuni classici eseguiti da Chet Baker, Billie Holiday, Stevie Wonder, Isaac Hayes o Nina Simone protagonista sonora con My Baby Just Cares for Me, di una sequenza centrale del film, la sequenza musicale cardine dell’intera storia del cinema di Bernardo Bertolucci: quella del ballo, della danza, una sorta di firma del regista dalle origini di Prima della rivoluzione e La commare secca, fino a The Dreamers e Io e te, passando naturalmente per Il conformista e per Tragedia di un uomo ridicolo, solo per evocarne alcuni.

Se dunque nel film non manca la musica di Mozart, è sorprendente come quest’opera riesca a farsi portavoce non della realtà storica del suo tempo ma, piuttosto, della realtà sonora, quando non anche specificamente discografica. Pensiamo al brano Alice dei Cocteau Twins: presente nel film, non è parte di nessun album, ma compare solo in un EP di tre canzoni edito nel luglio 1996 e intitolato Violaine. Che sia stata Alice a sostituire la presenza di Bachelorette di Björk nel film? Mi racconta Tiziana Lo Porto, autrice, traduttrice e giornalista qui in veste di studiosa e amica di Bernardo Bertolucci, che proprio l’artista islandese avrebbe dovuto prendere parte alla colonna sonora con il suo brano ma che poi l’accordo saltò a causa dei fitti impegni della cantante. Lo Porto, che cura il sito e le memorie ufficiali di Bernardo Bertolucci insieme a Fabien S. Gerard, Giovanni Mastrangelo, Clare Peploe e la Cineteca di Bologna, mi mostra un fax che proprio Björk in persona spedì a Bertolucci dall’Hotel Okura di Tokyo in cui, con disegnini e giocosi e un poco disperati punti esclamativi, avvisava il regista di non riuscire a fare in tempo a realizzare la versione definitiva del brano per il film. La canzone scelta, appunto Bachelorette, uscirà nel 1997, come secondo singolo dell’album di grande successo Homogenic e diventerà anche un video storico filmato dal regista francese Michel Gondry con una scena, quella di Björk in treno che, a vicenda nota, sembra ricordare proprio l’inizio del film di Bertolucci, con l’arrivo in treno di Lucy alla stazione di Siena voyeuristicamente spiato da una videocamera.

Se il rapporto di Bertolucci con l’uso delle musiche è sempre stato eccezionale, sorprendente e soprattutto cardinale all’interno della sua cinematografia e non è dunque una novità di Io ballo da sola va detto che in questo film si rivela completamente e appieno un aspetto ulteriore della questione e ciò la capacità che Bertolucci ha sempre avuto di utilizzare le musiche, le canzoni specialmente, per essere un po’ più contemporaneo, per rappresentare quella parte di mondo reale abitato dal suo cinema. Se in Prima della rivoluzione ascoltiamo il Gino Paoli degli anni ’60, quello che poi confluirà nell’incredibile album Basta chiudere gli occhi con due brani come Ricordati e Vivere ancora, Night Fever dei Bee Gees – rappresentazione potente della fine del decennio dei ’70 che si buttano negli anni ’80 – finisce nella colonna sonora de La luna, proprio del 1979, per non parlare poi di ciò che succede in The Dreamers, dove il maggio francese incontra il suono americano di Jimi Hendrix e Janis Joplin mescolandosi a Edith Piaf e a L’Internationale di Eugène Pottier e Pierre Degeyter.

In un’intervista rilasciata a Filippo Bianchi nel 2007 per la rivista Musica Jazz, Bertolucci raccontava il suo rapporto con la musica soffermandosi appunto sulla sua relazione con il jazz e accennando alla tardiva scoperta del rock grazie alla moglie Clare Peploe; già nel 1973 e poi nel 1979 Jonathan Cott, molto vicino al suo cinema, aveva realizzato per Rolling Stone due interviste storiche al regista, mostrando una sempre maggiore connessione non solo tra Bertolucci e le musica ma anche più largamente proprio tra il regista e un certo immaginario vivo, contemporaneo e giovanile. Se il rapporto con Ennio Morricone costituisce capitolo a sé, vista non solo la collaborazione protratta nel tempo, non solo l’amicizia ma proprio la capacità che il musicista ebbe di mostrare al giovane Bertolucci parte della strada maestra nell’uso delle musiche per il cinema, nell’intervista del 2007, Bianchi si sofferma invece, tra le altre cose, sul rapporto di Bertolucci con Ryuichi Sakamoto, autore delle musiche per la trilogia di film precedenti Io ballo da sola e con David Byrne, conosciuto dal regista all’epoca di Stop Making Sense (per via del videoclip girato dall’amico Jonathan Demme) che con Sakamoto comporrà proprio le musiche de L’ultimo imperatore partendo dalla direttiva iniziale del registra secondo cui mentre Sakamoto avrebbe dovuto occuparsi del côté più orientale, lui avrebbe dovuto trovare per lui un suono diverso, più occidentale, un suono, dice insomma BB, proprio alla Talking Heads.

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