Quant'era pop Lucio Dalla quando rilasciava interviste | Rolling Stone Italia
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Quant’era pop Lucio Dalla quando rilasciava interviste

Il libro 'E ricomincia il canto' colleziona conversazioni col musicista dal 1966 al 2011. Emerge il ritratto di un artista sinceramente popolare, che concepiva la musica come slancio verso gli altri

Quant’era pop Lucio Dalla quando rilasciava interviste

Lucio Dalla nel 1976

Foto: Mondadori via Getty Images

Succede che ogni tanto qualcuno mi chieda consigli su una bella biografia di Lucio Dalla da leggere e che mi tocchi ammettere che, come anche per diversi altri giganti della musica italiana, questo tipo di volume, scritto a un livello quantomeno degno del nome del protagonista, sorprendentemente non esista. Accade allora che io cerchi di muovermi nella mia libreria alla ricerca di un volume che in qualche modo, se non un’evoluzione cronologica precisa dei fatti, restituisca al meglio la storia, l’anima, l’approccio, i modi e i tempi almeno emotivi e artistici di un percorso, di una vicenda musicale e umana, qualcosa che insomma si avvicini il più possibile a un vero e proprio documento biografico o autobiografico.

Pochi giorni fa è uscito per il Saggiatore E ricomincia il canto, una raccolta realmente straordinaria di interviste rilasciate da Lucio Dalla nell’arco di tutta la sua vita artistica, trovate, scelte o meglio accuratamente selezionate da Jacopo Tomatis che in apertura scrive anche una sorta di prefezione biografico-tematica. Non un’autobiografia canonica, certo, ma indubbiamente l’opera che più le somiglia e un viaggio sorprendente nel cuore dell’artista e della sua produzione, nonché, secondo chi scrive, il più riuscito e interessante approfondimento dedicato a un artista della musica italiana uscito da molto tempo a questa parte.

Lucio Dalla, a differenza di molti colleghi e coetanei cantautori – lui non amava questa definizione e, prima di essere cantautore per anagrafica, si riteneva, ed era a ogni effetto, un musicista – non lesinava sulle proprie dichiarazioni, non giocava a nascondino con la stampa, non solo non la maltrattava e snobbava ma, anzi, la accontentava, la incontrava e, da furbacchiotto quale era, la utilizzava sapientemente visto che, oltre a non avere timore di parlare di sé agli altri, un’altra cosa dalla quale non era spaventato era l’essere pop nel senso più profondo, nobile e reale del termine.

Nonostante l’ordine cronologico in cui nel libro sono disposte le interviste e nonostante la possibilità di fare dunque questo viaggio autobiografico, uno dei quid grandiosi del volume è il modo in cui può essere letto in modo totalmente random – non sono sparigliando la cronologia delle interviste ma pure quella delle singole domande – riuscendo comunque a restituire al lettore con precisione e continuità persino una certa imprevista coerenza, tanti aspetti del pensiero e del sentimento Lucio Dalla e questo, ovviamente, grazie non solo allo stesso cantante ma anche alla perizia del curatore nelle scelta delle interviste.

Negli anni che vanno dal 1966, con la prima intervista selezionata rilasciata a L’Intrepido, al 2011, quando Panorama intervistò Dalla insieme al compagno di avventure musicali giovanili Pupi Avati, il musicista tiene insieme sé stesso in un percorso che è sì di evoluzione, apertura, avvicinamento al mondo in modo sempre più evidente ma pure estrema nitidiezza di sé, autoconsapevolezza, precisione di intenti e desideri. Molte le voci in queste interviste rilasciate a nomi di differenti estrazione e mondi culturali, da Monica Vitti (a propostito del fumetto e in particolare di Braccio di Ferro) a Ludovica Ripa di Meana su L’Europeo, passando per Lorenza Pieri su Minima & Moralia e Vincenzo Mollica su Rai 1 fino alla famosa, tormentata ma infine gentile conversazione con Giorgio Bocca su L’Espresso per l’uscita di Dalla, il disco di enorme successo del 1980; molte di più delle voci però sono le costanti: in primis un certo amore per la necessità di comunicare. Laddove la maggior parte dei colleghi nascondeva sé stesso dietro un gioco di silenzi e una certa ricerca, pur appunto non esplicitata, del gradimento da parte delle nicchie, Dalla ricercava insaziabilmente l’altro, lo voleva avvicinare, certamente anche sedurre, sempre a modo proprio, ma soprattutto lo voleva raggiungere.

In questo senso da queste interviste emerge la necessità di Dalla di essere sempre più pop, non un bisogno imposto dalle esigenze del mercato (per diversi anni e album, precisamente per sette LP, Dalla fu prima un nome incompreso e parzialmente incollocabile a cui la stessa discografia non riusciva a trovare uno spendibile posizionamento, e poi, con il poeta Roversi, artista per pochi), ma un bisogno profondo, intimo, nobile. Per Dalla potersi rivolgere “alla gente” era un autentico privilegio – lo sottolinea senza filtri in molte occasioni, tra le altre nel volume per Savelli curato da Dessì (Luigi Manconi), e scrivere canzoni belle, dunque prodotti di qualità in grado di raggiungere l’altro, era per lui il massimo compito politico, laddove la coscienza politica è soprattutto per ognuno la capacità di fare del proprio meglio per la propria società.

Dalla crede in Dio, crede nell’amore – di cui parla ampiamente e in modi insieme lucidi e struggenti in molti momenti del libro – ma prima di tutto crede nell’uomo, nel “pianeta-uomo” che, asserisce, ritiene migliore di quanto siamo portati a credere. Affascinato dalla sua figura, credeva in Padre Pio – che fin dall’infanzia, con la madre di Manfredonia, era solito venerare in terra di Puglia – apprezzava i Nirvana e i Soul Asylum, detestava le droghe e l’orribile assioma per cui musica e stupefacenti se ne vanno a braccetto (aveva visto la droga, e lo racconta, trasformare grandi musicisti come Chet Baker in uomini disperati pieni di violenza) e faceva coincidere il suo bisogno di avvicinarsi alle persone, appunto l’esigenza intima di comunicare con loro, alla propria natura di cristiano, cioè creatura rivolta all’esterno, alle altre creature e non verso sé stessa.

Dagli inizi come jazzista a quando trovò Tenco morto nella sua stanza d’hotel a Sanremo, fino all’amore per i suoni contemporanei e per la figura del dj, passando per il rapporto con il denaro e con i live, con De Gregori e con Bersani, ma pure per quella volta in cui uno spettacolo di Laurie Anderson a teatro a New York lo fece innamorare del Fairlight, per il feeling con Morandi, il lavoro con Malavasi, la relazione con Bologna e il fatto che si possa “vivere umanamente” solo da Roma in giù, questo libro è una sintesi non sintetica del pensiero di uno degli artisti più straordinariamente ricchi dell’umanesimo novecentesco italiano.

Più che una recensione, un articolo, un approfondimento, a leggerlo e a scriverne, questo libro fa venire voglia di essere citato e ricitato, memorizzato, letto ad alta voce agli amici e a chi si ama ma, specialmente, a certi cantanti d’oggi, tutti accorati e attentissimi nel dire che di musica loro ne ascoltano poca, in fondo, altrimenti la creatività viene meno. Diceva Lucio: «ascolto musica dieci ore al giorno, al cesso come a letto» e, in effetti, il risultato di tale pratica è ancora forte nelle nostre orecchie.

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