Quando la Beat Generation incontrò la Byte Generation: il 1982 dei King Crimson | Rolling Stone Italia
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Quando la Beat Generation incontrò la Byte Generation: il 1982 dei King Crimson

Quarant'anni fa usciva 'Beat', uno degli album più divisivi della band di Robert Fripp, un anti-concept diviso fra la scrittura febbrile dei beatnik e le visioni del presente. Lo rivalutiamo?

Quando la Beat Generation incontrò la Byte Generation: il 1982 dei King Crimson

Robert Fripp dei King Crimson nel dicembre 1981

Foto: Koh Hasebe/Shinko Music/Getty Images

Non v’è dubbio: per i progger duri e puri, le svolte anni ’80 delle band storiche che nei ’70 rappresentavano un suono e un’attitudine “colta” sono uno sfacelo. Vale anche per i King Crimson, tra i protagonisti della rinascita del genere in quegli anni musicalmente “superficiali” agli occhi di certi fanatici.

Spavaldo come sempre, il guitar hero e leader Robert Fripp resuscita la sua creatura che era – giustamente – giunta al termine della sua missione negli anni ’70 e lo fa convincendo pubblico e critica. Nel 1981 esce Discipline, che nel suo frullare diverse tendenze allora nell’aria, tenute insieme grazie a tecnicismi, sperimentazione e ottovolanti ritmici e sonori cari alla tradizione della band, diventa un caposaldo del rinnovato progressive rock. La questione è che ok, i Crimson in questo disco assorbono tutto quello che Fripp aveva sperimentato suonando con i prime movers dei ’70 , da Bowie a Eno, dalla new wave ballabile ma cerebrale dei Talking Heads alla no wave dei suoi League of Gentlemen arrivando alla world music alla Peter Gabriel. In pratica, è un riassunto delle esperienze conto terzi, ma filtrato attraverso la sensibilità di un gruppo che vede non solo il ritorno alle pelli di Bill Bruford, ma soprattutto la presenza di Adrian Belew come chitarrista cantante e autore e Tony Levin al basso. Il primo gozzovigliava con Frank Zappa, Bowie, i Talking Heads e i Tom Tom Club, il secondo ha suonato praticamente con mezzo pianeta e nella nuova emanazione dei Crimson porta la grande innovazione dello Stick, uno strumento suonato via tapping che permette di coprire sia le parti di basso che quelle melodiche o di accordi, possibilità che Levin userà in maniera massiccia.

C’è ovviamente da notare che forse questi King Crimson avrebbero tranquillamente potuto avere un nome diverso, ma in effetti la magia straniante della sigla fa di Discipline un disco storico che molti addirittura pensano sia il migliore di tutta la carriera dei Crimson. Ma Discipline non è altro che il primo capitolo di una trilogia, composta di altri due dischi quali Beat del 1982 e Three of a Perfect Pair del 1983. Oggi cade proprio l’anniversario di uscita di Beat: ve lo ricordate?

Beh, probabilmente la maggior parte avrà dei problemi a inquadrarlo: incastrato tra Discipline e la terza parte della trilogia che sembra quasi prenderlo per il culo già dal titolo, su Beat pesa il fatto di essere la seconda prova (e quindi quella del nove) di una nuova formazione che dei Crimson prende il nome, ma forse non ancora la perfetta coesione dei membri. In un 1982 in cui la new wave è sull’orlo di diventare definitivamente mainstream, Discipline aveva praticamente dettato la strada per chi desiderava il nuovo ma ancora credeva a determinati valori musicali.

In quel 1982 sembra complicato per i Crimson non tanto essere degli sperimentatori di novità, ma essere percepiti come tali dalle orecchie del pubblico, che sembrano quasi distratte, martellate dalla nuova ondata, dando gli sforzi della band quasi per scontati o forse addirittura vani. Ancora adesso leggiamo pareri e recensioni fondamentalmente divisivi su questo album: c’è chi lo reputa buono, chi buono ma non troppo, chi il punto più basso della carriera della band, chi lo ritiene eccellente (e questi sono la minoranza). In realtà Beat è semplicemente unico nel suo genere, un caso quasi isolato all’interno della discografia dei King Crimson.

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Per la prima volta, all’inzio di un nuovo lavoro la line up della band non viene cambiata. Il disco ha un tema inusuale che è quello della Beat Generation: approfittando del venticinquennale della pubblicazione di Sulla strada di Kerouac, i Crimson pensano a un anti concept album che invece di raccontare una storia si concentri solo su icone isolate della generazione beatnik, citandoli a partire dai titoli dei pezzi come se si trattasse di quadretti di pop art e anticipando forse il ritorno di interesse di quel genere letterario in musica (Burroughs collaborerà in quegli anni coi Sonic Youth, Ginsberg con i Clash, Laurie Anderson ne sarà totalmente influenzata).

In tutto questo, la visione centrale del disco e la sua sonorità particolarmente orientata a una patina di rigore quasi kraftwerkiano è in un certo senso associata al passaggio tra beat generation e byte generation, il testimone lasciato ai freak geek che non smettono di sperimentare una nuova via di vita come arte, tra eccessi e intuizioni folgoranti. La copertina parla chiaro, con quella nota musicale ottenuta graficamente da un computer, oggi dal gusto meravigliosamente otto bit. E la tecnologia avanzata è infatti tra le grosse novità del disco: si usa un registratore a 24 tracce e per la prima volta i Crimson si affidano a eccellenti ingegneri del suono e a un produttore esterno che sa il fatto suo come Rhett Davies.

Da questo momento, tra l’altro, la tecnica di registrazione della band si focalizza sull’utilizzo di meno sovraincisioni possibili per agevolare invece la presa diretta. Belew prende la sua chitarra e cerca di ampliare il suono già sperimentato in Discipline, spostandosi direttamente nel noise, che sia bianco o dirottato da feedback, lavorando anche sull’accordatura (il Mi alto viene portato in basso fino a un Do). Nello stesso tempo cambiano anche gli equilibri nella band: Belew è sempre più al centro di grandi pressioni poiché incaricato di sfornare melodie e testi, due degli elementi fondanti di Beat, che di base è un esperimento nel rendere cantabili eterofonie che probabilmente in altro modo farebbero esplodere il cervello. Ma non solo: se pensiamo a Waiting Man (senza dubbio un esempio di tale pratica e del memorabile percussionismo elettronico di Bruford) troviamo un anticipazione dell’Herbie Hancock superrobotico di Rock It.

In questo senso il disco è un tentativo di asciugare la scrittura dei Crimson rendendola immediata e moderna, quasi stradaiola come nello spirito degli scritti Beat, mantenendo nello stesso tempo quel brulichio di pensieri musicali tipico della febbre creativa beatnik e dell’insieme di culture musicali altre che costellavano i loro viaggi in terre inesplorate. Non è quindi un album orientato al pop, a parte lo specchietto per le allodole di Heartbeat, accattivante ma nello stesso tempo capace di farti venire il mal di mare nel saliscendi chitarristico di Belew e nei Frippertronics sparsi (e poi effettivamente, volendo cantarlo magari arrangiato come i Crimson vecchia maniera, potrebbe tranquillamente fare parte di Island). Neanche la suadente Two Hands nonostante la melodia orecchiabile da ballata AOR (oggi sarebbe perfetta in campo hyperpop), riesce a rimanere dritta per più di un tot, come fosse infastidita dalla sua stessa efficacia.

Insomma, Beat è un raro esempio di bipolarismo in musica: da una parte la realtà che fa pressione ed è senza via di uscita, dall’altra l’immaginario beat del viaggio, delle droghe, della libertà e in ultima analisi del fuori di sé, del virtuale. La musica dei Crimson in questo frangente è più vicina che mai all’attitudine odierna di etichette come l’Orange Milk Records, col loro mix di influenze musicali discordanti.

Beat rimane quindi un fuoco d’artificio da gettare contro il futuro, un lavoro dinamico che non può per natura finire nei classici “museali”, ma vive in una specie di bolla spaziotemporale. E al riccardone che disquisisce avanzando dubbi sul suo valore, risponde proprio Bill Bruford in un’intervista del 1982: «Non voglio che le persone pensino di aver bisogno di un dottorato di ricerca in scienze comportamentali per capire King Crimson».

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