Prima di ‘Hey Hey Rise Up’: 10 canzoni dei Pink Floyd contro la guerra | Rolling Stone Italia
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Prima di ‘Hey Hey Rise Up’: 10 canzoni dei Pink Floyd contro la guerra

Signori della guerra che mandano le truppe al massacro, eroi mutilati, un olocausto nucleare, il fantasma del padre di Roger Waters: 50 e passa anni di musica contro la retorica del “noi contro loro”

Prima di ‘Hey Hey Rise Up’: 10 canzoni dei Pink Floyd contro la guerra

Pink Floyd, circa 1973

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

“When the Tigers Broke Free” (1982)

When The Tigers Broke Free

Oer molto tempo il singolo non avrà posto in nessun album dei Pink Floyd se non nella raccolta Echoes e nella ristampa di The Final Cut del 2004, nonostante nel retrocopertina fosse all’epoca annunciato come tratto dall’album che sarebbe uscito nell’83. Non è chiaro perché Roger Waters abbia deciso di escluderlo (anche se il pezzo era stato già eliminato dalla scaletta ufficiale di The Wall perché considerato troppo personale dagli altri Floyd), fatto sta che all’epoca fece da traino al film tratto da The Wall per la regia di Alan Parker, di cui rappresentava uno dei pochi inediti della colonna sonora. È uno dei più accorati e commoventi atti di accusa ad ogni tipo di guerra, un pugno allo stomaco quasi insostenibile. Concepito come un requiem di stampo marziale e orchestrale (e nel ritorno della sola orchestra c’è quasi una strizzatina d’occhio ad Atom Heart Mother), non prevede alcun intervento della band se non la voce di Waters che interpreta il testo smontando di ogni pomposità l’arrangiamento volutamente solenne, atto a creare un contrasto di sentimenti. Il testo è una doppia descrizione: quella della volta in cui il piccolo Roger scopre in un cassetto il certificato di morte del padre con relativa onorificenza e il modo brutale in cui il padre muore, letteralmente abbandonato e sacrificato con altri suoi commilitoni dagli alti gradi militari che non accettarono il ritiro delle truppe britanniche da Anzio. Le tigri del titolo sono un’abile metafora, visto che i Tigers erano i carrarmati tedeschi.

“Goodbye Blue Sky” (1979)

La voce innocente di un bambino in apertura (il figlio di Waters che all’epoca aveva due anni) esclama “guarda mamma c’è un aereoplano in cielo”, frase innocente che diventa agghiacciante in quanto l’aereo si tramuta in un bombardiere. Nella sequenza animata dedicata al brano nel film The Wall, il grafico Gerald Scarfe tira fuori l’oscenità e il sangue insiti nella guerra: il grigio, la puzza di cadavere escono direttamente dalla sua matita per finire nello schermo. E musicalmente il brano non è da meno: oscilla tra dolci e melanconiche chitarre acustiche e angelici cori alla Beach Boys per poi precipitare nell’incubo di sintetizzatori malvagi e discese in minore mantenendo la patina psichedelica dei Floyd vecchio stile. Anche se le fiamme sembrano lontane, il dolore è oramai inestinguibile. Goodbye Blue Sky rappresenta in The Wall l’inizio del baratro psicotico del protagonista Pink, il cui trauma è strettamente connesso con le atrocità della Seconda guerra mondiale, di cui è figlio (Waters si riferisce in particolare ai bombardamenti dei nazisti sull’Inghilterra). I Floyd in questo brano danno il massimo a livello di coesione, e tutti – tranne Mason, qui impegnato solo nei field recordings – fanno un lavoro di grandissima potenza sui sintetizzatori.

“Two Suns in the Sunset” (1983)

Two Suns In The Sunset

Forse il picco del reepertorio antimilitarista dei Floyd è questo brano contenuto in The Final Cut, album che più di tutti è un concept sulla guerra e i suoi effetti devastanti. Musicalmente è una ballata di derivazione country che si svolge diafana, quasi vuota e fa da contraltare alla rassegnazione del testo, che è forse uno dei più potenti manifesti antinucleari di sempre. È la descrizione di un’esplosione atomica che produce l’illusione di due soli al tramonto, il guidatore che all’esplosione si schianta contro un camion mentre il calore scioglie le lamiere, momento in cui l’arrangiamento si fa più rock e Nick Mason infarcisce di effetti olofonici il tutto, automobili sfreccianti e grida di innocenti vittime della follia umana. La musica rappresenta il tempo che si fa beffe degli uomini, buoni solo ad autodistruggersi e sabotarsi, scorrendo sereno mentre il resto è oramai polverizzato (Waters riproporrà la traccia in periodo pandemico, con una certa lungimiranza nel prevedere ciò che sta accadendo ora). Il finale rivela la grande sciocchezza della guerra nucleare: “Cenere e diamanti / amico e nemico / eravamo tutti uguali, alla fine”, e subito dopo un lacerante solo di sax che sembra un fungo atomico che si disperde rarefatto nell’atmosfera.

“Us and Them” (1973)

Nel 1973 i Pink Floyd fanno uscire il loro disco più venduto di sempre, ovvero The Dark Side of the Moon. È, come noto, un concept su quello che fa impazzire l’uomo moderno e non poteva mancare quindi un brano sulla guerra e sulla sua completa irrazionalità: i soldati vengono freddamente mossi come pedine, non vengono considerati esseri umani. Il tema è espresso con intelligenza anche musicalmente: Us and Them è un brano catchy per un pubblico pop e contemporaneamente un inquietante esperimento di jazz psichedelico, con i suoi phaser ipnotici e l’andazzo liquido. Originariamente pensato per la colonna sonora di Zabriskie Point con il titolo The Violence Sequence, venne rifiutato da Michelangelo Antonioni perché lontano dalle atmosfere estreme alla Careful with That Axe Eugene che lui ricercava. La riteneva troppo triste, gli ricordava musica da chiesa. E in effetti l’organo iniziale di Wright, autore del pezzo insieme a Waters, evoca spiritualità e raccoglimento, tanto che nel 1977 i nostri lo usavano dal vivo per sedare i bollenti spiriti del pubblico del famigerato In the Flesh Tour, quello in cui Waters sputò a uno spettatore innescando il trip di The Wall.

“Sheep” (1977)

Il 1977 è anche l’anno del disco proto post punk dei Floyd, ovvero il cupissimo Animals. Il brano trainante – almeno a giudicare dal suo inserimento nella compilation A Collection of Great Dance Songs – è Sheep. La canzone non fa sconti alla massa cieca che va dritta al massacro seguendo leader politici e fanatismi religiosi, con Waters che recita in un vocoder la seguente salmodia: “Il Signore è il mio pastore / su pascoli erbosi mi fa riposare / mi conduce ad acque tranquille / con coltelli lucenti libera la mia anima / mi fa penzolare ai ganci nei luoghi più alti / mi trasforma in costolette di agnello”. Con i suoi sintetizzatori, ricorda le dissonanze di Atom Heart Mother, ma in anticipo sui tempi di Another Brick in the Wall forse flirta per la prima volta con la disco music. Introdotte da un piano elettrico di Wright che tra effetti sonori bucolici sembra quasi acid jazz, le pecore nella canzone riescono addirittura a rovesciare il potere dei cani. Una volta sconfitti questi ultimi, le pecore tornano smettono di essere critiche e trovano un nuovo leader da seguire e dal quale ancora una volta farsi macellare.

“Corporal Clegg” (1968)

Pink Floyd - Corporal Clegg (Official Audio)

Contenuto in A Saucerful of Secrets, disco di passaggio in cui i Floyd sono un quintetto (c’è ancora Syd Barrett), il brano è il primo a contenere tematiche di guerra. Si narra di un reduce con la gamba di legno e una moglie alcolizzata. L’ex soldato sogna una medaglia dalla Regina ed è in evidente stato post traumatico da stress (“Cara, cara, erano davvero tristi per me? Cara, rideranno di me?”). Waters lascia indizi sulla sua storia autobiografica (il 1944, anno in cui il caporale ottiene la gamba posticcia è quello della morte del padre), nonostante il tono della canzone non sia dark ma grottesco e beffardo, con un kazoo che domina una sfasciata banda militare. Musicalmente è pura psichedelia rock con innesti beatlesiani, momenti cacofonici, autocitazioni barrettiane e soprattutto vede alla voce un inedito turnover tra Glimour, Mason, Waters e Wright. Il significato è chiaro: la guerra rende i suoi reduci degli storpi da deridere, il premio di consolazione è essere considerati eroi. Nulla è nello stesso tempo tanto tragico quanto amaramente comico.

“The Dogs of War” (1987)

Anche i Pink Floyd post Waters si sono cimentati in canzoni contro la guerra: una di queste è The Dogs of War, presente in A Momentary Lapse of Reason, il primo senza il bassista. La canzone nulla toglie e nulla aggiunge al canzoniere dei Floyd in questo senso, anzi sembra quasi un bignamino di cose già dette meglio da Waters, le cui capacità poetiche sono indubbiamente superiori a quelle di Gilmour, che infatti ha bisogno di farsi aiutare da collaboratori esterni. Nonostante questo, la canzone ha la caratteristica di introdurre l’idea di potere politico “massonico” che è al di sopra di quello che vediamo: oscuri burattinai che si giocano la Terra senza che neanche gli alti gradi militari sappiano cosa sta succedendo (e figuriamoci il popolino). È la versione 2.0 di Dogs, contenuta in Animals: lì il bersaglio erano gli arrampicatori sociali, quelli che per vivere all’ombra del potere sono capaci di giustificare anche l’omicidio, qui invece la stoccata colpisce il potere che sfrutta i suoi stessi sostenitori. Dal punto di vista musicale è una specie di taglia e cuci tra Welcome to the Machine, What Shall We Do Now? e Money, inserito in un contesto digitale. Gilmour, forse proprio per dimostrare di non essere meno impegnato dell’ex collega, scrive il pezzo ispirandosi alla guerra in Afghanistan. Nonostante sia stata votata come la peggiore canzone dei Pink Floyd in un sondaggio del 1989 della rivista Amazing Pudding, The Dogs of War è stata rifatta addirittura dai Laibach nel loro disco manifesto (e chiaramente polemico) Nato. Illuminante questo passaggio del testo, soprattutto a proposito del momento storico in cui stiamo vivendo: “I cani della guerra non discriminano, non fanno negoziati”.

“A Great Day for Freedom” (1994)

A Great Day For Freedom

Gilmour ci riprova e nel 1994 piazza una nuova canzone contro la guerra nell’ultimo album ufficiale dei Floyd, The Division Bell (The Endless River è infatti essenzialmente un omaggio postumo a Richard Wright). Stavolta il tema è la caduta del Muro di Berlino. Dietro alla presunta libertà rimangono “frontiere che si spostano come la sabbia del deserto e le nazioni lavano le mani insanguinate”, allusione al conflitto jugoslavo. Tornano a suonare i tamburi delle marce in lontananza, la guerra serpeggia tra le crepe della pace. Questa ballata sognante e rarefatta è stata ripescata dalle session di A Momentary Lapse of Reason, con un testo di Polly Samson, moglie di Gilmour. Spesso interrogato se in realtà la canzone non parlasse di un altro tipo di guerra, ovvero quella tra lui e Waters una volta conclusa la “dittatura” di quest’ultimo sulla band, Gilmour ha sempre decisamente negato.

“Childhood’s End” (1972)

Pink Floyd - Childhood's End (Official Music Video)

È tratta da Obscured by Clouds, ovvero la colonna sonora del film La Vallée, in cui ritornano gli spettri della guerra. Dopo Corporal Clegg, è il secondo brano che affronta tali tematiche, ma stavolta è preso alla lontana e soprattutto si tratta di un testo di Gilmour, che sembra filtrare il malessere del compagno attraverso la propria sensibilità (cosa piuttosto rara). La riflessione sulla fine dell’innocenza è legata alla gioventù figlia dell’ultimo conflitto mondiale, traumatizzata dai lutti, dalle promesse di pace mai mantenute, cresciuta con il rimpianto di non aver potuto impedire tanta violenza. “Ci sarà guerra e ci sarà pace / ma ogni cosa un giorno finirà / gli uomini orgogliosi torneranno polvere”. Pare che il brano sia stato ispirato a Gilmour dal romanzo omonimo di fantascienza scritto da Arthur Clarke in cui degli alieni invadono la Terra portando un’apparente pace dietro la quale si nasconde la trasformazione degli umani in alieni, ma il testo sembra decisamentre più universale. Musicalmente è un rock psichedelico diretto e in mid tempo, con a reggere tutto la percussione elettronica del synth VCS, antipasto del suo utilizzo massiccio nel successivo The Dark Side of the Moon.

“The Hero’s Return” (1983)

Per concludere avremmo potuto scegliere il geniale The Fletchter Memorial Home, in cui Waters esprime una scrittura musicale barrettiana (il punto di riferimento è la strappalacrime Dark Globe) e nel testo auspica la nascita di una clinica battezzata col nome del padre nella quale rinchiudere tutti i capi di Stato, i tiranni della guerra di modo di farli sfogare nella loro demenza per poi farli fuori nella “soluzione finale”. Abbiamo preferito un altro brano tratto da The Final Cut in quanto importante documento di quello che i Floyd avrebbero potuto fare nel campo della rock wave elettronica. The Hero’s Return è un florilegio di effetti elettronici, strumenti trattati, cassa dritta e pedalare, e un testo che scava nel dramma dei reduci che cercano di reinserirsi nella società del dopoguerra. Concepito per The Wall e poi scartato in sede di registrazione, era inizialmente un botta e risposta tra il sadico maestro di The Wall e i suoi alunni. In questa versione il maestro è incapace di abbandonare i fantasmi del conflitto mondiale. Waters sembra empatizzare con il dolore del protagonista, che non riesce neanche ad aprire il cuore con la moglie se non quando lei dorme profondamente. Il pezzo si conclude con un diretto rimando al brano successivo, ovvero The Gunner’s Dream, il sogno di un mondo migliore.

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