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Pluggers, l’etichetta di Massimo Pericolo è “l’errore” della discografia italiana

La label del rapper si racconta: una strada che parte dalla provincia, lontano dai ‘giri giusti’ e dai percorsi preconfezionati, una scommessa in cui nessuno credeva ma che alla fine ha vinto ‘7 miliardi’

Foto di Giulia Bersani

«Lavoravo con alcuni rapper e mi occupavo di promozione, soprattutto radiofonica, una figura che nell’industria musicale americana è definita “plugger”», racconta Oliver Dawson, fondatore dell’etichetta che prende il nome di Pluggers, appunto. Una label indipendente – anche se si autodefinisce una major – arrivata a prendersi i riflettori la scorsa stagione, lanciata dall’UFO Massimo Pericolo, il rapper entrato a gamba tesa sulla scena italiana, di cui ora è uno dei protagonisti più solidi nonostante l’età, appena 27 anni. I video di 7 miliardi o Sabbie d’oro, l’album Scialla Semper, un meteorite spuntato dal nulla e atterrato in uno spazio da qualche tempo rimasto vuoto, quello delle rime nate dalla strada, che la strada se la portano dentro perché l’hanno vissuta davvero, anche nei suoi lati più oscuri.

Ma Massimo Pericolo – o Vane, come lo chiama Oliver, il vero nome del rapper è Alessandro Vanetti – è solo la punta dell’iceberg di un lavoro iniziato quasi sei anni fa, concretizzatosi con l’arrivo di Crookers in scuderia, il produttore oggi pilastro dell’etichetta. «Il lancio di Crookers Mixtape II è stato il primo vero progetto di Pluggers, il primo passo del nostro percorso», spiega Oliver. «Ci siamo divertiti a sperimentare con il linguaggio di Crookers, con la sua estetica e con il suo immaginario, organizzando la festa di lancio del disco in un ristorante cinese. Era un’idea pazza, ma è stato in quel momento che abbiamo capito di voler fare cose in maniera diversa, fuori dagli schemi, che la nostra filosofia come etichetta sarebbe stata quella di dare spazio a suoni o artisti che non troverebbero spazio da altre parti».

Emblematico, infatti, il caso di Massimo Pericolo, perché se oggi il suo è uno dei nomi più appetitosi per qualunque locale italiano, «qualche tempo prima dell’uscita avevamo inviato Scialla Semper a un A&R piuttosto importante di una major che non ci ha mai nemmeno risposto», racconta Oliver, parlando della sua scommessa vinta a mani basse. «Era un disco folle, suonava come niente in circolazione e non era facile da digerire, ma la nostra idea era quella di fare il meno possibile, di tenerlo esattamente così com’era, un album che ti arriva dritto in faccia: ascoltando 7 miliardi per la prima volta nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo». Contro tutto e contro tutti, fuori dalla logica delle playlist o della hit, Pluggers è andata per la propria strada, spesso sbagliando – «Il nostro slogan è “noi siamo l’errore”», dice Oliver –, lontani dai ‘giri giusti’ e per questo affermandosi come la mosca bianca dell’industria discografica, con un roster che di patinato non ha nulla, un roster che assomiglia più a una grigliata domenicale annaffiata a casse di birra che a un gruppo di artisti da folle ululanti sotto il palco.

Da destra: Joe Scacchi, Tommy Toxxic (Wing Klan ), Drimer, No Label, Crookers, Massimo Pericolo, Nic Sarno, Barracano, Ugo Borghetti (quest’ultimo non fa parte del roster Pluggers). Foto di Giulia Bersani

Massimo Pericolo, Barracano, Drimer, Wing Klan, No Label, i due ‘numi tutelari’ Nic Sarno e Crookers: «Se non c’è un rapporto di amicizia con gli artisti preferiamo non lavorarci», racconta Oliver parlando del sentimento che guida la nave. Lo stesso sentimento sbattuto sul palco durante il tour di Massimo Pericolo, Speranza e Baraccano, tre rapper legati tra loro da un immaginario comune, da storie tra loro lontane eppure simili, dalla voglia di divorarsi il concerto con il coltello tra i denti. «Non ci immaginavamo nemmeno di arrivare a riempire locali come l’Alcatraz di Milano o l’Estragon di Bologna, la nostra idea era di mettere insieme sul palco tre amici, persone con una storia difficile alle spalle che avevano usato la rabbia del passato come fonte d’energia per il live», aggiunge parlando del tour “dei record” – «A Bologna c’è stato il record di ambulanze dopo il pogo di 7 miliardi, a Milano il record di casse di birra consumate nel backstage». «Non sapevamo come sarebbe andata, lo scopo del tour era quello di mettere in scena per due ore la cosa più cazzuta possibile, dare al pubblico un’esperienza immediata, senza nessun filtro che separasse il palco dalla platea».

“Immediatezza”, da queste parti sembra essere la parola d’ordine. «Per ogni artista con cui lavoriamo cerchiamo sempre di fare un lavoro ad hoc, molto personale, ma senza mai seguire uno standard preciso. Al centro della nostra comunicazione c’è sempre stata la sincerità e l’impatto che può dare; l’artista per noi deve essere una persona vera, con cui il pubblico si identifica: una persona come te, che veste come te, che va nei tuoi stessi locali, con cui smezzi una birra», aggiunge Koki Flores, socio di Dawson e responsabile della comunicazione all’interno di Pluggers. «Per noi la musica è una missione, non una competizione», ribadisce Oliver, «I nostri artisti raccontano una sofferenza, anche se in modo diverso. Vogliamo fare musica che possa aiutare le persone nei momenti difficili, che possa farlo con leggerezza», aggiunge. La ‘missione’ di Pluggers, raccontare voci diverse, storie diverse, suoni diversi, scelte sbagliate, “noi siamo l’errore”. «Veniamo tutti dalla provincia e ce l’abbiamo nell’anima, si riflette nella nostra musica, siamo sempre stati lontano dalle dinamiche modaiole, fuori dal binomio soldi/successo, estranei ai percorsi preconfezionati per piazzare qualche hit in radio o in una playlist, quelle sono scorciatoie. E prendere scorciatoie non fa per noi».

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