L’arte della jam secondo i Dream Syndicate | Rolling Stone Italia
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L’arte della jam secondo i Dream Syndicate

Il loro ultimo album ‘The Universe Inside’ è pura improvvisazione. Qui Steve Wynn racconta le cinque jam session che hanno ispirato il disco e spiega che per fare una grande jam bisogna mettersi nei guai

L’arte della jam secondo i Dream Syndicate

Dream Syndicate

Foto: Tammy Shine

I Dream Syndicate hanno fatto jam fin dalla prima volta in cui si sono trovati a suonare assieme in uno scantinato a West Los Angeles. Che si trattasse di una versione lunga un’ora di Susie Q o di un’elaborazione della nostra That’s What You Always Say, che all’epoca era in stato embrionale, abbiamo sempre voluto spingere le canzoni oltre i loro limiti razionali, oltre lo sfinimento e il senso di ripetizione, per portarle nello spazio interstellare.

È nella nostra natura, ci piace farlo. Ed è un lato che ogni tanto è emerso nella nostra storia di band, in particolare in pezzi come John Coltrane Stereo Blues e Halloween, o più di recente nell’album del ritorno How Did I Find Myself Here. In concerto, canzoni di questo tipo sono fra le preferite dalla band e dal pubblico.

Alla fine abbiamo capito che è una delle cose che ci riescono meglio e in cui forse superiamo quasi tutte le altre band. Ci è venuto in mente di fare un intero album così: alla base di The Universe Inside c’è infatti un’improvvisazione totale. È uno dei nostri preferiti e anche il pubblico la pensa così. Ecco allora cinque jam che i Dream Syndicate hanno nel dna e che hanno influenzato il disco. Rilassatevi e perdetevi nella musica. È il modo giusto per apprezzare questa roba.

“Sister Ray” The Velvet Underground

the velvet underground - sister ray

Due soli accordi e nessun piano da seguire. I Velvet Underground non hanno fretta di arrivare da qualche parte. Macinano groove come se stessero scavando per vedere fin dove possono arrivare. Dopo la morte di Lou Reed ho suonato questo pezzo due volte. Non avevo una mappa, né uno schema da seguire, un po’ come i Velvet. Alla fine, ho scoperto che entrambe le mie versioni erano durate circa 17 minuti, come l’originale. Può sembrare bizzarro, ma non mi ha affatto sorpreso: a volte finisci nel posto in cui devi andare ignorando la strada da seguire.

“Born Under the Punches (Live in Rome, 1980)“ Talking Heads

Talking Heads - Born Under Punches - Rome, Italy - 1980

Questo sarebbe nella top 10 dei concerti che vorrei vedere se potessi tornare indietro nel tempo. È un’esplosione di maniacalità, di contraddizioni, di connessioni. È frenetico e allo stesso tempo cool. Un po’ come Remain in Light, l’album che i Talking Heads promuovevano all’epoca, è una jam formata da un solo accordo che dà origine in modo del tutto naturale a canzone strutturata e accattivante. Che è poi quel che abbiamo cercato di fare con The Universe Inside. Che voglia di tornare a fare concerti e suonarlo.

“Miles High (Untitled Version)“ The The Byrds

The Byrds - Eight Miles High (Audio/Live 1970)

Anni fa m’era presa la mania di cercare le lunghe versioni dal vivo di questo pezzo dei Byrds post Crosby, post Gene Clark, post Gram Parsons. Sono tutte fantastiche. Clarence White è un chitarrista mostruoso. Adoro il modo in cui al dodicesimo minuto circa questa jam apparentemente senza forma si trasforma in una delle canzoni pop più belle e famigliari di sempre. È una piccola magia. È come se la band ci strizzasse l’occhio e dicesse: «Sapevamo fin dall’inizio che ci saremmo arrivati. Avevate dubbi?». È un trucchetto che qualche volta ho usato anch’io.

“No Agreement” Fela Kuti

Fela Kuti - No Agreement

Jammare non significa fare un assolo dietro l’altro. A volte i musicisti di un gruppo si producono in ripetizioni e seguono schemi circolari finché non cambia la percezione stessa di che cos’è il cambiamento. Tutti hanno un ruolo e ci vuole disciplina per raggiungere lo scopo. È un’idea quasi militaresca e politica della jam, e non a caso queste due cose sono iscritte nella musica e nel messaggio di Fela Kuti. 

“Right Off” Miles Davis

Miles Davis / A Tribute to Jack Johnson

Miles suonava o cantava ai musicisti una semplice melodia e loro attaccavano a suonare. Doveva avere una gran fiducia in loro, oltre a possedere una capacità fuori dal comune di ascoltare e rispondere in tempo reale a quel che suonavano. A Tribute to Jack Johnson potrebbe essere il mio disco jazz preferito di sempre. Dice la leggenda che Herbie Hancock è arrivato a metà session con del cibo per gli amici e si è fermato ad ascoltare quel che suonavano. Miles gli ha indicato un organo Farfisa scassato e gli ha fatto cenno di unirsi al gruppo. Le cose più eccitanti accadono quando ti metti nei guai.

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