Perché l’iPod ha cambiato per sempre il nostro rapporto con la musica | Rolling Stone Italia
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Perché l’iPod ha cambiato per sempre il nostro rapporto con la musica


Non era solo un jukebox portatile, era uno stile di vita, l'ultimo gadget dell’era pre-streaming. Ecco il nostro addio al supporto che permetteva di immergersi totalmente nella musica

Perché l’iPod ha cambiato per sempre il nostro rapporto con la musica

Foto: Justin Sullivan/Getty Images

Addio, iPod. Farai sempre girare la rotellina dei nostri cuori. Apple ha ufficialmente interrotto la produzione dell’amato lettore mp3 e il 12 maggio un Apple Store americano ha venduto il suo ultimo iPod Touch. È la fine di un’epoca, perché l’iPod era molto di più di un jukebox portatile. Era uno stile di vita. Ha rivoluzionato l’arte del fandom musicale. Ha creato il futuro a riproduzione casuale in cui viviamo oggigiorno. È stato l’ultimo lettore pre-streaming. L’ultimo che non ti obbligava a chiedere il permesso di una multazionale per ascoltare i tuoi dischi. L’ultimo pensato per lasciarti da solo con il suono. Il miglior dispositivo di ascolto di tutti i tempi.

La triste morte dell’iPod era nell’aria da tempo. Qualche giorno fa, Techradar ha pubblicato un articolo con questo titolo: “Forse non ve ne siete accorti, ma Apple vende ancora gli iPod”.

Sono un fan dell’iPod Classic: hanno smesso di produrlo nel 2014 ma si trova ancora online. La mia playlist “Folklovermore” ha Right Where You Left Me ripetuta sei volte, perché in un mondo perfetto quella canzone sarebbe nella scaletta di tutti gli album di Taylor Swift. Il mio Classic è obsoleto, e allora? I trend cambiano, ma non esco mai di casa senza un iPod. Se Apple vuole portarmelo via, dovrà strapparlo dalle mie fredde mani (probabilmente sono diventate così per colpa della rotella).

Di solito si parla dell’iPod come del dispositivo che ha dato inizio all’era della musica digitale o di un precursore dello smartphone. In retrospettiva, però, sembra più l’ultimo dispositivo legato a come si ascoltava la musica prima dello streaming, quando un disco era una cosa che si poteva possedere e non prendere in prestito.

Ascoltando l’iPod si era isolati. Nessuno ti tracciava, misurava, contava, studiava o rubava i tuoi dati. C’eravate solo tu e le tue canzoni, nessun altro. Teneva conto del numero di riproduzioni, certo, ma lo faceva solo per il tuo divertimento. Non giudicava.

Quando l’iPod è apparso sul mercato, nel 2001, sembrava troppo bello per essere vero. Prometteva di mettere «mille canzoni nelle vostre tasche». Prima, se volevi andare in giro ascoltando musica, usavi un Walkman e ti portavi dietro un’audiocassetta in più magari due. L’iPod ha annullato quei limiti. Andavi in montagna ascoltando solo i bootleg dei Velvet Underground (nel mio iPod ci sono nove ore di performance di Sister Ray). Potevi passare dall’hip hop di New Orleans all’opera, fino alla dub. L’iPod ha cancellato i confini tra i generi che c’erano all’epoca, creando una nuova specie di onnivori pop. È stato come un’esplosione interculturale e intergenerazionale, una Sexy Sadie che riusciva a conquistare tutti e ad aprire le menti. Nel 2006 è uscito un libro sull’iPod, aveva questo titolo: The Perfect Thing.

La maggior parte dei fan dicono che l’era dell’iPod è finita con il Classic (il “perfect thing” di cui parla il libro). Il Touch aveva una connessione wi-fi e ricordava la versione ridotta di uno smartphone. E la bellezza dell’iPod stava proprio nell’immersione totale nella musica. Non potevi usarlo per leggere le mail o guardare la tv mentre ascoltavi un disco. Non potevi scrollare e spiare cosa facevano i tuoi amici. Avevi solo la musica. Ore e giorni di musica gloriosa.

Quando Apple ha presentato il dispositivo l’idea che valesse la pena possedere (o rubare) una canzone digitale era un’ovvietà. C’erano Kazaa, Limewire, Gnutella, ZShare, eMule, modi infiniti per curare la nostra collezione digitale di mp3. Potevi ascoltare i pezzi dei System of a Down perché erano tuoi. Non era richiesta alcuna password. L’unica autenticazione a due fattori consisteva nel gridare “I cry” e “When angels deserve to die”.

Certo, oggi ci sono tanti mp3 player in commercio, ma l’iPod aveva qualcosa di speciale. Ha creato un nuovo tipo di devozione da fan. Il suo boom è coinciso con quello dell’emo, del backpack rap, di tanti generi di culto. Per qualche ragione, ha reso i fan più coinvolti e connessi con la musica. Ha anche reso più semplice condividerla con gli amici.

L’iPod ti aiutava a esplorare nuovi mondi musicali. Almeno una volta l’anno, passavo una giornata ad ascoltare tutte e cinque le ore di The Well-Tuned Piano di La Monte Young, un’opera che ho ascoltato solo con l’iPod. Era un teatro di musica eterna, incastrato nella mia rotellina tra Ladytron e Lana Del Rey.

Il meglio è arrivato con iTunes 8.0. Era il picco della cultura degli mp3. Come ha scritto Jeremy D. Larson su Pitchfork nel 2018, «la mia musica non è mai stata così organizzata come nel 2008 e 2009. Se potessi tornare indietro nel tempo, non andrei a dire a Oppenheimer della bomba (…) tornerei a otto o nove anni fa e mi costringerei a non aggiornare più iTunes».

La versione successiva aveva una barra di ricerca e un’interfaccia da incubo. Aveva anche un maledetto disco degli U2. Ancora? Non se n’erano liberati anni prima? Come succede spesso con Apple, la gang di Cupertino ha fatto di tutto per incasinare la retrocompatibilità, costringendo tutti all’upgrade per le solite ragioni di sicurezza (ma che diavolo significa sicurezza se parliamo dell’iPod? Volevano proteggerci e impedirci di ascoltare Helena durante una notte di luna piena? Avvertirci di respirare a fondo prima di ogni playlist con i Bright Eyes?).

Amo le playlist sulle piattaforme streaming, ma è un’esperienza diversa, perché non appartengono ai fan. Lo scorso autunno, Spotify ha silenziosamente eliminato una feature che permetteva alle playlist di avere una cosa fondamentale: un finale. Quando il tuo mix arriva all’ultimo pezzo, l’autoplay prende il controllo e va avanti all’infinito (a meno che non lo disabilitiate nelle impostazioni). In altre parole, una playlist non è più la vostra selezione di un’ora di musica. È una pausa di un’ora prima che l’algoritmo torni a dominare i nostri ascolti. È un modo per ricordarci quant’è evanescente la cultura dello streaming. Possiamo ascoltare grazie all’approvazione delle multinazionali, solo perché non hanno trovato un modo più furbo per farci pagare.

Lo spirito dell’iPod, però, sopravvive, perché rappresenta l’idea che un frammento musicale di qualsiasi era o genere, anche il più tremendo, possa diventare tuo solo perché ne sei innamorato. L’idea che la tua canzone preferita ti costringa a spegnere il telefono, non ad accenderlo. L’idea che sia possibile sentire la tua musica direttamente, senza passare per un cloud. L’idea che la musica sia dei matti che vivono per lei e non pensano a nient’altro. E quest’idea continuerà a vivere perché quel dispositivo ha creato un mondo musicale in cui tutti, se vogliamo, possiamo trasformarci in un iPod.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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