Patrick Carney dei Black Keys racconta com’era suonare accanto a Charlie Watts | Rolling Stone Italia
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Patrick Carney dei Black Keys racconta com’era suonare accanto a Charlie Watts

Il batterista spiega la forza dello stile semplice del musicista e ricorda la volta in cui è salito sul palco con gli Stones. «Col tempo ho capito che non voglio suonare come John Bonham, ma come lui»

Patrick Carney dei Black Keys racconta com’era suonare accanto a Charlie Watts

Dan Auerbach dei Black Keys con Ronnie Wood e Charlie Watts

Foto: Evan Agostini/Invision/AP

La notizia della morte di Charlie Watts ha colpito colleghi e amici del batterista dei Rolling Stones, ma anche i musicisti delle generazioni successive. Un po’ come gli Stones, anche i Black Keys si sono fatti le ossa col blues e poi sono passati a scrivere materiale originale, canzoni che non hanno mai perso di vista quelle origini.

Proprio i Black Keys furono invitati nel dicembre 2012 a salire sul palco dell’ultimo concerto del tour per i 50 anni di carriera degli Stones (tra gli ospiti c’erano anche Bruce Springsteen, Lady Gaga e John Mayer). Il batterista Patrick Carney, che ha suonato accanto a Watts Who Do You Lovedi Bo Diddley, ci ha raccontato cosa ricorda di quella performance e perché il batterista degli Stones è uno dei più sottovalutati della storia del rock.

Oggi ho aperto Instagram e c’erano una cinquantina di foto di Charlie, tutte postate da batteristi. Non è mai entrato nelle classifiche dei migliori batteristi di sempre, eppure potrebbe essere stato il più influente in assoluto e questo perché le sue parti erano accessibili. Quando inizi con la batteria, è difficile capire come suonare Immigrant Song o roba del genere. Invece Under the Thumb la puoi fare. Suonandola capire che la canzone ha bisogno solo di quel ritmo. Niente di più. È come quando mangi un ottimo pollo fritto e qualcuno chiede: «Ma che ci hai messo?». E tu: «Giusto sale e pepe».

Da ragazzo, i miei mi permettevano di guardare in tv roba strana come un assurdo show sul Vietnam intitolato Tour of Duty, che avrò visto nel 1987, quando avevo sette anni. La canzone che chiudeva lo show era Paint It Black. Non avevo mai sentito niente di più figo. Mio padre registrava una cassetta dopo l’altra con le canzoni degli Stones, che coi Beatles era la prima band di cui mi sono appassionato.

Quando parlano di Charlie, la prima cosa che dicono quelli che non suonano batteria è che non usava il charleston, ma preferiva il rullante. Ma se ascoltate il ritmo di Satisfaction capite da dove viene, dalla Motown, solo che è molto semplice. Non credo che altri avessero applicato al rock quello stile. C’è anche in Paint It Black e in centinaia di pezzi rock & roll.

Quando qualcuno mi chiede chi sono i miei batteristi preferiti, di solito Charlie sta fuori dalla top 5. E invece oggi ho riascoltato gli Stones e ho capito che non cerco di suonare come Bonham, ma come Watts. Lo stile degli Stones è duro, sempre sul backbeat e senza stronzate inutili. In una canzone come Brown Sugar, Charlie suona i floor tom in tutte le strofe, poi passa al charleston. È tutto semplice, naturale. È puro swing.

Ho ascoltato anche un bootleg di alcune session del periodo di Exile on Main St. Ci sono gli Stones, Nicky Hopkins e Ry Cooder. È la roba di Jamming with Edward. È il suono di alcuni tizi che in una stanza cercano un groove e dentro c’è l’essenza di Charlie. Gli Stones erano alla ricerca di un’atmosfera un po’ americana e Charlie si è inserito senza fronzoli, al centro del suono. Ed era sempre in tiro. Adoro il video di Start Me Up in cui è seduto alla batteria con un blazer.

Quando abbiamo suonato con gli Stones, siamo arrivati a New York da Londra una volta finito l’ultimo show del tour di El Camino. Siamo andati nei SIR Studios, era uno di quei momenti che non ti godi perché pensi: «Come sono finito qui e me lo merito davvero?».

Ho salutato Watts e gli ho stretto la mano, poi abbiamo suonato il pezzo un paio di volte. Charlie sorrideva e Ronnie Wood e Keith Richards avevano sempre una sigaretta incastrata sulla paletta della chitarra. Era surreale. Ricordo che non volevo approfittare dell’accoglienza, così appena abbiamo finito ho detto che dovevo andare a cena con mio fratello o qualcosa del genere. Keith ha risposto: «Ehi, non mi interessa cosa devi fare. L’importante è che ti diverti».

Who Do You Love è un pezzo semplice in quattro quarti, è difficile sbagliarlo. Di solito, quando lo suono spengo il cervello e mi trasformo in una specie di cavernicolo. A un certo punto, mentre lo suonavamo sul palco, ho alzato gli occhi e ho visto che Dan (Auerbach) stava a un passo da Keith. Mi sono distratto e ho sbagliato un colpo cambiando la parte di rullante.

Solo un batterista avrebbe capito cosa stava succedendo. Mi sono girato verso Charlie, mi guardava come se volesse dire «Non è così», ma aveva un sorriso enorme. Capiva il mio errore e la cosa lo divertiva. Era l’uomo più figo che abbia mai suonato rock & roll.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.