Parlare con intelligenza di droghe è possibile: lo abbiamo fatto con Cosmo e Enrico Petrilli | Rolling Stone Italia
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Parlare con intelligenza di droghe è possibile: lo abbiamo fatto con Cosmo e Enrico Petrilli

Il discorso pubblico sulle dipendenze, la discoteca come luogo di liberazione, il rinascimento psichedelico: faccia a faccia tra il musicista e l’autore di ‘Notti Tossiche’, un saggio sul piacere nel mondo del clubbing

Parlare con intelligenza di droghe è possibile: lo abbiamo fatto con Cosmo e Enrico Petrilli

Foto: Kimberley Ross

Parlare di droghe in Italia è come camminare su vetri rotti in una selva spinata. Instaurare un dialogo sano e costruttivo sul tema continua ad essere molto complicato a causa dei numerosi preconcetti e della scarsa informazione che dominano l’opinione pubblica. Parlare di sostanze è parlare di piacere, e il piacere è un altro sacro tabù della nostra società.

Enrico Petrilli ha da poco pubblicato, per Meltemi Editore, un saggio dal titolo esplicito come la sua persona, Notti Tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere, un’indagine lucida sul ruolo del piacere e delle droghe nel mondo del clubbing. Con Enrico abbiamo colto l’occasione per affrontare l’argomento, tirando in causa un amico comune, Marco Bianchi in arte Cosmo, altro individuo che non ha timore di dire la sua su queste tematiche ostracizzate.

Più che un’intervista, è uscita una conversazione di due ore, intensa e ricca di spunti fondamentali per iniziare a portare questo discorso al di fuori delle nostre bolle, dentro il discorso collettivo. Perché, come scriveva Michel Foucault, “dobbiamo studiare le droghe, dobbiamo provare le droghe, dobbiamo fabbricare delle buone droghe”.

Vorrei cominciare questa conversazione parlando dal concetto di terrore e paura legato al dialogo sulle droghe, un pensiero trasversale che modella e direziona l’opinione pubblica. Secondo voi perché sono questi sentimenti a dominare il discorso rendendo impossibile un confronto costruttivo?

Enrico: In Italia ci sono stati molti studiosi che si sono occupati di droghe, dentro e fuori l’università. Il problema però è che questa conversazione è rimasta limitata ad un pubblico di nicchia e non è arrivata alle masse. Nel nostro paese è un problema far circolare certi messaggi perché – come Pasolini fa dire a Orson Welles in La Ricotta – abbiamo “la borghesia più ignorante d’Europa”. Chi decide e ha i mezzi per far circolare questi saperi preferisce non farlo continuando lo stigma nei confronti di sostanze e consumatori. Un atteggiamento proibizionista che non risolve i problemi, anzi li amplifica. Ne parlo spesso con Marco, se vuoi ridurre le morti, i rischi e gli errori allora devi fare cultura, creare dialogo, condividere informazioni, fornire conoscenze utili per affrontare quei problemi. E soprattutto si deve smettere di non riconoscere pubblicamente la differenza tra consumo saltuario, ricreazionale, problematico, compulsivo.

Cosmo: Ho ritrovato un vecchio libro, Le droghe di E. Malizia, comprato ai tempi dell’università. L’ho sfogliato e mi ha fatto pensare a come il tema dell’esperienza legato all’utilizzo delle sostanze non sia mai stato preso in considerazione. Questi lavori sono sempre stati un elenco di effetti collaterali e rischi e, solo in minima parte, in maniera stringata e riduttiva, un racconto sugli effetti. Un trattato del genere, a livello di valore scientifico, è lacunoso. Parlare di droghe solo in termini di effetti collaterali è un problema che non spiega il motivo per cui tante ragazze e ragazzi vanno verso l’esperienza della droga, il perché la cercano. Il lavoro di Enrico mi piace proprio perché, come qualsiasi altro studio che dà dignità ad un oggetto di ricerca, riesce a portare alla luce anche altri aspetti delle sostanze. Quando vuoi fare prevenzione, ma nelle scuole porti un racconto incentrato solamente sui possibili rischi, ovviamente stai facendo del proibizionismo, del terrorismo. Notti Tossiche è pregevole perché spiega – da dentro – cosa realmente succede. È una descrizione minuziosa.

Enrico: Fare prevenzione parlando solo dei rischi produce un effetto opposto a quello desiderato. Questo perché, dopo la prima esperienza psicoattiva, la persona capisce che qualcosa di fondamentale è stato occultato e di conseguenza il processo di prevenzione perde di credibilità. Ovviamente è fondamentale parlare di droghe anche in relazione ai rischi e a quanto possono rovinarti la vita (anche se si dimentica sempre di citare gli altri fattori che concorrono a produrre questo risultato), ma proprio perché esistono certe problematiche è necessario fare un tipo di prevenzione completa che sfati i miti sulle droghe, che distingua tra dipendenza fisica e psicologica, non si accontenti di patologizzare fenomeni molto più complessi e sia in grado di insegnare a ridurre i danni situazionali senza basarsi solamente sulla paura di cui parlavi.

Cosmo: Ho trovato estremamente interessante che, in questo saggio, Enrico indaghi l’esperienza del clubbing in sé attraverso interviste ad altri clubber e ricerca personale sul campo; ho finalmente visto esplodere davanti ai miei occhi qualcosa di concreto, qualcosa che va conosciuto e di cui le persone devono essere a conoscenza. I titoli sensazionalistici dei giornali che parlano delle feste come di agglomerati di drogati è un racconto limitato che non prende in considerazione l’esperienza dei partecipanti. Il problema insomma non è solo del grande pubblico, ma anche degli ambiti accademici. Per parlare in maniera equilibrata bisogna raccontare tutti i possibili risvolti dell’esperienza e questo non avviene nel dibattito pubblico sulla droga. Le sostanze esercitano una forza attrattiva che va spiegata. È necessario avere un quadro più completo, capire determinate pratiche e contesti legati all’assunzione, studiare e divulgare un utilizzo sicuro, oltre a rischi e complicazioni possibili. Infine dovremmo ammettere che, dopo tanti anni, la guerra alle droghe ha fallito miseramente. È stato un esperimento che andava fatto e da cui ora possiamo trarre conclusioni abbastanza nette. Bisogna aprire a soluzioni alternative, come la depenalizzazione, che in Portogallo ha dato ottimi risultati, ad esempio. Insomma, bisogna chiedersi: qual è il modo migliore per mettere in sicurezza i nostri ragazzi? E rispondersi in modo realistico e senza pregiudizi.

Enrico, nel tuo libro è fondamentale il concetto di piacere. Un piacere che fa perno sul corpo come luogo di resistenza. Come definiresti il piacere e perché, nel tuo pensiero, è uno snodo imprescindibile per fare politica?

Enrico: Perché definire qualcosa? Appena la definisci la imbrigli, non gli dai possibilità di cambiare. Il mio testo è tutto sul divenire. Ti propongo una strategia diversa, non diamo una definizione di piacere, ma vediamo il posto che ha occupato nelle società occidentali. Il piacere legittimato nel mondo moderno era quello del maschio borghese, etero e bianco, mentre ne erano condannati tutti gli altri: l’ubriachezza proletaria, il sesso delle lesbiche mascoline, i balli nei locali gay e ovviamente qualsiasi piacere stupefacente non appartenente alla tradizione occidentale. Nel libro ricostruisco come artisti, femministe, soggetti LGBT e queer hanno iniziato ad utilizzare il piacere come forza positiva per opporsi ad una società che voleva normalizzarli. È la storia dell’attivismo politico contemporaneo da quando, a partire dal ’68, si è realizzato che il modello tradizionale di lotta non era più sufficiente.

Come mai per questo saggio hai scelto la discoteca come luogo di analisi e non, ad esempio, il rave? È molto interessante come la discoteca, ambiente della perdizione per antonomasia nel discorso collettivo, è qui raccontata da un’altra prospettiva più realistica, ovvero come spazio disciplinato, con regole e controlli rigidi a limitare la libertà dell’individuo.

Enrico: Tra i raver mi sembra sia forte l’illusione di poter creare spazi utopici di libertà, esterni alla società, non considerando come chi li frequenta è il primo veicolo del potere. Eliminare i buttafuori o le file all’ingresso, pensare di agire al di fuori dei meccanismi del consumismo, non mi sembra sufficiente per liberarsi da quelle forme di (auto)controllo che abbiamo interiorizzato fin dall’infanzia. Parlo, nello specifico, del senso di insicurezza, la necessità di conformarsi, la volontà di imporsi sugli altri e via discorrendo. La discoteca è, invece, un luogo paradossale, perfetto per studiare le potenzialità insurrezionali del piacere perché, sebbene sia rappresentata mediaticamente come spazio di eccesso e delirio, vi operano molteplici dispositivi che provano a limitare le possibilità dei clubber di provare piacere.

Cosmo: Nelle discoteche ci sono delle regole, ma al suo interno succedono cose che sfuggono al controllo, dei sovrappiù di esperienza, spazi di possibilità ridotti in cui si possono sprigionare delle potenze interattive incredibili. Vorrei che il mio pubblico entrasse in contatto con una intuizione fondamentale del libro: siamo influenzati dai valori dominanti e le nostre soggettività sono normate dai meccanismi della società attuale, incentrata sulla performance. Siamo addestrati dalla radice della nostra educazione, fin dalla scuola dell’infanzia, alla prestazione, alla competizione. Nel clubbing è possibile spezzare questa catena dell’utilità. Il club riesce a liquefare l’ansia della vita lavorativa. La droga è un tassello di una struttura di esperienze che ci portano ad essere persone diverse, più felici, empatiche, unite. I club, come gli eventi musicali, sono luoghi importanti che non possono venire meno. L’enorme tristezza che stiamo vivendo ora è dovuta, ancor prima che alla crisi economica del settore, al fatto che manchino questi luoghi e queste occasioni. Mancano gli spazi in cui andavamo a lenire ferite che la società della performance ci infligge, sia a livello individuale che collettivo.

Enrico: Marco ha detto una cosa fondamentale che va sottolineata: la sostanza è solo un elemento tra i tanti. Quello che faccio nel mio lavoro è ricostruire gli attori umani e non-umani che partecipano alla costruzione dei piaceri del clubbing. Una festa in un boschetto sperduto o in un club oscuro sottoterra hanno setting diversi da proiettarti verso esperienze totalmente differenti, anche se le droghe assunte sono le stesse. Il setting è un concetto fondamentale per gli studi sulle droghe e bisognerebbe veicolarlo di più per contrastare la mentalità dominante alla Super Mario: mangi il funghetto e questo ti trasforma, quando, invece, la realtà è prodotta da tutta una rete di elementi.

Ricordo che nella prima parte della mia adolescenza, mia madre mi fece leggere Le nuove droghe di Gunter Amendt e Patrick Walder, edito da Feltrinelli. È una guida critica alle sostanze, un saggio divulgativo che, oltre a spiegare chimicamente come funzionasse ogni sostanza, parlava del setting ideale e dei singoli effetti. A quell’età fu una lettura illuminante, nessuno me ne aveva mai parlato in un senso critico.

Enrico: Non sono un gran fan del concetto di setting ideale. Alexander Shulgin, il chimico che nel dopoguerra ha riscoperto l’MDMA, l’assumeva con sua moglie e i suoi amici nel salotto di casa in tutta tranquillità e si sorprese, anni dopo, quando scoprì che era diventata la party drug per eccellenza, perché per lui il setting ideale era un altro e non capiva il senso di assumerla per ballare. Dal mio punto di vista, tutti questi tentativi di definire e classificare lasciano il tempo che trovano, noi studiosi (ma in un certo modo vale anche per i consumatori) non possiamo pensare di avere il controllo su una sostanza, perché è un oggetto vivo che evolverà con la società e la influenzerà profondamente. Prendiamo ad esempio la cocaina. Una sostanza consumata con modalità e motivazioni molto differenti dalle donne borghesi di fine ‘800, dagli yuppie anni ’80 o da chi oggi l’assume per migliorare le proprie prestazioni a lavoro. Una sostanza che ha contribuito a costruire il mondo come lo conosciamo: dall’ipotizzata influenza su Freud nello sviluppo del concetto di inconscio all’essere stata alla base del prodotto più venduto al mondo (ovviamente parlo della Coca-Cola).

Credo che il limite maggiore sia che un discorso pubblico sulle droghe tremendamente limitato ad un concetto di unica-grande-droga, un concetto-droga, una droga-sineddoche fatta di tutte le sostante assieme che, assunta, ti trasforma in un avatar svuotato dall’umanità che nella discoteca si annienta e – probabilmente – va a morirci.

Enrico: La “droga” non esiste. Utilizzando il termine droga vengono messe assieme un sacco di sostanze differenti (stimolanti, anestetizzanti, allucinogeni, psicofarmaci, ecc.), con storie ed effetti diversissimi. Come si può banalizzare un mondo così complesso?

Cosmo: Il problema è che questo principio elementare non è ancora stato compreso. I media fanno ancora uso del termine droga per parlare di erba quanto di eroina. Bisognerebbe sputare in faccia alla stampa per questo.

Enrico: Basta pensare a come oramai si parli di dipendenza per ogni cosa: dipendenza da lavoro, dipendenza affettiva, dipendenza dal sesso. Ci vogliamo rendere conto che non è solo la sostanza a creare dipendenza, ma è il nostro rapporto con il mondo? C’è chi va a cercare questo rapporto ossessivo in una droga, chi nel lavoro, chi nei social e via dicendo. Non è qualcosa che produce la sostanza a essere problematico, ma quello che noi cerchiamo in lei: la ricerca del successo, della sicurezza, del riconoscimento. Sono tutte richieste sociali che abbiamo interiorizzato e che riversiamo su lavoro, sesso, droghe.

Cosmo: Come l’ansia generata dal dovere lavorare ossessivamente e della richiesta di essere sempre raggiungibili e presenti.

Enrico: Noi ora non stiamo puntando il dito verso le persone che sviluppano questi tipi di dipendenze. Dal momento che questa situazione è così estesa, significa che non è un problema dell’individuo ma di come veniamo cresciuti, di cosa abbiamo in cambio dei patimenti quotidiani, di come ci viene insegnato che per ottenere qualcosa di positivo dobbiamo prima soffrire.

Cosmo: Questa cosa mi fa spostare dal senso del piacere alla felicità. La ricerca della felicità, che teoricamente viene garantita dall’ideologia occidentale, fa parte delle esperienze di cui stiamo parlando: musica elettronica, droga, club. È una ricerca del benessere, di una felicità. Quando scatta la festa, ecco, è quello un momento che ti rimane impresso nei ricordi, in cui ti sei sentito felice. Una felicità intensa perché possiede qualcosa di euforico, di sovra-eccitante. Una felicità spumeggiante, un’allegria esplosiva. Non so quanti momenti possano invece rimanere in una vita passata in fabbrica a lavorare. Parliamo di quello che ci rimarrà, i ricordi non sono cose da poco.

Enrico: L’eccitazione, inoltre, è uno strumento essenziale per “uscire di sé”, perdere il controllo e disarticolare, fare esplodere questa gigantesca pressione che abbiamo a sentirci un soggetto fatto e finito. Puoi iniziare a dubitare di ciò che hai sempre pensato di essere, puoi scoprire che, al di là della soglia, c’è un mondo di possibilità che potresti diventare. È quello che in Notti tossiche definisco ‘divenire bambino’ ossia un modo di essere differente che i clubber sperimentano attraverso il clubbing rifiutando l’ansia, l’insoddisfazione, la competizione a cui sono costretti dalla loro vita adulta.

Cosmo: Ultimamente sono molto attratto dal ricordo e dalle sensazioni che avevo da bambino. Lo faccio osservando i miei figli, come se in loro ci fossero segreti nascosti o dimenticati. Allo stesso modo sono attratto dall’uomo primitivo prima del neolitico, prima delle sedentarietà e della civiltà, l’uomo della caccia e della raccolta. Credo che ci sia qualcosa di pre-disciplinare, pre-concettuale, pre-educativo che con la nascita del linguaggio si vada a perdere. Il linguaggio introietta regole e pian piano perdiamo quel qualcosa che però ancora brilla nei bimbi, quell’energia multiforme. Nel clubbing e nella sperimentazione con le sostanze trovo un riavvicinarsi a queste sensazioni, un tornare ad essere corpo.

È il tema che nel libro viene definito risveglio sensuale del corpo, un concetto magnifico. Enrico, in Notti Tossiche riprendi anche un’intuizione di Paul B. Preciado e parli del principio di autocavia. Puoi spiegarci in che modo lo ricontestualizzi nel tuo lavoro?

Enrico: Il principio di autocavia è una tattica di lotta (micro)politica. È una sperimentazione dei soggetti compiuta attraverso il proprio corpo e la propria soggettività per rifiutare saperi esterni e imposizioni identitarie. Un esempio è la ribellione delle persone transgender e non-binarie nei confronti delle pretese dello Stato e delle case farmaceutiche di definirle e di decidere sui loro corpi. Un altro esempio sono quelle femministe che attraverso il piacere clitorideo hanno rifiutato la posizione di inferiorità a cui le ha relegate la psicoanalisi. In Notti Tossiche ho esplorato la conoscenza carnale promossa dai piaceri elettronici e ho provato a capire come si oppone all’orizzonte esistenziale quotidiano dei clubber.

Vengo da te, Marco. Declinata in una modalità differente, possiamo collegare la ricerca di Enrico ad un brano della tua carriera. Parlo de L’amore che, nella data di chiusura del tour di Cosmotronic al Mediolanum Forum di Milano, hai presentato con un visual esplicito in cui giganteggiava la scritta “MDMA”. Una bella botta in faccia al pubblico, no?

Cosmo: Il brano parla di quel momento di esplosione e di amore che accade nel club. Quando la canzone è stata pubblicata, ho preferito non esplicitare questo collegamento, lasciando che il pubblico potesse approcciarsi con purezza. È un pezzo che piace molto proprio per quel testo così emotivamente vivo; ha colpito più di quanto mi aspettassi. Penso sia emblematico.

È un cortocircuito in cui le persone che non hanno mai assunto MDMA non possono sapere di che esperienza parli nel brano proprio perché – come detto all’inizio – non c’è quell’informazione e quel racconto sul piacere e sugli effetti positive delle droghe. E per quella parte di pubblico L’amore rimane un brano che parla propriamente d’amore e non di un’esperienza soggettiva con una sostanza psicotropa.

Cosmo: Parlare pubblicamente di questi argomenti è sempre qualcosa da prendere con le pinze. Ho scritto quella canzone con l’intento di raccontare un’esperienza in maniera oggettiva, descrivendo il piacere che ho provato. Deve pur significare qualcosa se quella canzone emoziona da morire raccontando quel lato che è sempre stato omesso dalle rappresentazioni terroristiche delle sostanze: quell’amore così gigante che ti mette il magone.

Vorrei concludere con una domanda per Enrico. Nell’ultimo periodo in Italia, anche grazie al dialogo aperto da interessanti pubblicazioni nostrane (La scommessa psichedelica a cura di Federico di Vita, Terapie Psichedeliche 1 e 2 di Adriana D’Arienzo e Giorgio Samorini, LSD di Agnese Codignola), si è iniziato a parlare di Rinascimento psichedelico, ovvero una rivalutazione e riscoperta delle sostante psichedeliche anche, e soprattutto, in chiave medica. Vorrei chiederti un parere sull’argomento.

Enrico: La prima cosa che mi viene da dire è complimenti ai fautori del dibattito italiano; in Italia è davvero difficile imporre dal basso un tema droga-correlato, ma loro ce l’hanno fatta. Detto questo, sono un po’ inquietato dal rinascimento psichedelico perché mi sembra problematico su molteplici fronti. Primo, il settarismo: glorificare una classe di sostanze non fa altro che riprodurre lo stigma nei confronti delle altre droghe e di quei consumatori ricreazionali o problematici che non adottano la medesima attitudine proattiva. Secondo, il carattere manipolatorio: rinchiudere gli psichedelici all’interno di un recinto programmatico mi sembra rappresenti una volontaria omissione del carattere rizomatico dell’esperienza stupefacente. Chiunque abbia vissuto un po’ di situazioni di socialità tossica dovrebbe riconoscere gli infiniti esiti prodotti dall’incontro tra droghe, soggetti e setting di consumo. Terzo, l’ostracismo: questioni di classe, genere, etniche sono raramente affrontate così come mi sembrano pochi i tentativi di inquadrare sociologicamente il fenomeno all’interno del tecno-capitalismo contemporaneo. Senza considerare i giochi di verità e le relazioni di potere che ti fanno credere di essere in un videogioco, il modello è ancora quello di Super Mario Bros: prendi il funghetto e tutto si risolverà.

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