Milano e Ornella – sono tutta tua. No, meglio: Milano è Ornella, Ornella è Milano. Due entità inscindibili, indistinguibili l’una dall’altra. Era còre de ’sta città, direbbero altrove, e infatti tra milanesi ci si diceva: e quando muore l’Ornella, che si fa? Ma no, non muore mica.
C’è questa battuta di Ornella Vanoni, o attribuita a Ornella Vanoni, che non so nemmeno più se è vera, se l’ho sentita io o me l’ha raccontata qualcun altro. Però la cito spesso comunque. Diceva Ornella che, se a Roma stai facendo una passeggiata e incontri qualcuno, be’: stai facendo una passeggiata, che problema c’è. A Milano, invece, a quel tipo che incontri devi dire che sei uscito anche solo per comprare il prosciutto. A Milano non si passeggia tanto per passeggiare. (Anche perché dove vuoi passeggiare, parliamoci chiaro – ma questo l’ho aggiunto io.)
Non so se quella battuta è vera, ma mi sembra catturare precisamente l’anima di questa città, e chi poteva farlo se non Ornella. Ornella operosa, produttiva, fino alla fine nei salotti tv sbuffando, son stanca, son vecchia, però esco, faccio, lavoro. #Ornellanonsiferma, e girato su di lei quello slogan non suona ridicolo com’è.
Quest’anno Milano ha perso due icone, scusate la parolaccia. Due che hanno sempre lavorato, fatto cose, fino alla fine. Due che incontravi in giro, spesso al cinema (ormai erano rimasti solo loro, nei pochi cinema rimasti). Quando, a settembre, è morto Giorgio Armani, Ornella, che ne è stata amica e modella per eleganza e per destino, ha pubblicato una loro foto scrivendoci sotto: “Addio guerriero. Il tuo ultimo gesto, l’acquisto de La Capannina di Franceschi, fa capire quanto amavi le cose belle e nella memoria di tutti”.
I milanesi parlano sempre di case e di soldi, è vero, ma almeno in questo caso non sembra una cosa cafona. Rientra in quello spirito di prima del fare, dell’agire, del non star cui man in man. Ma fare “le cose belle”, che Milano sembra avere un po’ dimenticato, e meno male che invece c’è (c’era) qualcuno a ricordarci che la “memoria di tutti” di quello è fatta, persino qui.
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Pure le case di Ornella, ragazza del Jamaica e poi ultimate sciura di Brera, sono un racconto a sé dell’anima di questa città. Lo storico appartamento di largo Treves dove, secondo una bellissima leggenda metropolitana, faceva salire i tassisti per incontri sensuali. Negli ultimi anni l’aveva lasciato, con tristezza ampiamente e pubblicamente condivisa, per una casa più piccola, perché si è più vecchi e più poveri. Ma una casa con vista sul Parco (Sempione; quelli di Porta Venezia sono i Giardini), tutta verde menta, messa anche nelle riviste, perché i milanesi il design lo esibiscono, gli spazi privati diventano luoghi di tutti, e infatti lei le sue case le apriva a un sacco di gente.
La prima casa milanese di Ornella era piccola anche quella. Il Piccolo Teatro di via Rovello è il luogo scelto per la camera ardente, perché lì c’è la memoria che tutti i milanesi ancora conservano di Ornella. Strehler, la mala, e tutto il resto. Era ironicamente e vanitosamente ossessionata, l’Ornella, dalla dimensione pubblica della città. Diceva che il suo Piccolo è oggi diviso tra Grassi (via Rovello) e Strehler (largo Greppi), il Teatro Studio è di Mariangela Melato, il Lirico l’avevano riaperto intitolandolo a Gaber, la Palazzina Liberty ha il nome di Dario Fo e Franca Rame. Per lei non è rimasto più niente. Sindaco Beppe Sala, mi dedichi almeno un’aiuola. Però in centro.
Ornella, come Milano, non si ferma. Anche a costo di nascondere le disperazioni, rivelate per davvero solo in tarda età, quando erano rimaste solo l’incoscienza e l’allegria. Sapessi com’è strano, essere depressi a Milano. E anche questo è diventato, indirettamente, racconto antropologico locale, incarnato, in ballerine Dior, dalla sua cittadina più rappresentativa.
Il lavoro, i soldi, l’andare sempre avanti spazzando via il passato, da sempre la vera nemesi di questa città. Però le cose belle la facevano tornare indietro, e il passato rispuntava. L’ultimo post di Ornella su Milano è del luglio scorso. C’è lei che ride dentro una tinozza, come quelle delle lavandaie dei Navigli. Sotto scrive: “Allora io ero così felice perché Milano era una città dolce, dove tutti potevano vivere e la gente non doveva lottare per mangiare”. In questi suoi ultimi anni, le abbiamo fatto vedere Milano, la sua Milano, come non avrebbe voluto, come non avrebbe dovuto. Ora sta a noi riportare le cose belle in città. Ci vediamo all’aiuola Ornella Vanoni, ciao.
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