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Un festival come nessun altro: siamo stati a Terraforma

A Terraforma non si va solo per la musica. Si va per addentrarsi in un mondo parallelo, nel bosco incantato appena fuori Milano di Villa Arconati. Ecco cosa ci è piaciuto di più
Terraforma 2015, Villa Arconati, Terraforma Festival, Experimental and Sustainable Music Festival. Foto Giovanni Battista Righetti

Terraforma 2015, Villa Arconati, Terraforma Festival, Experimental and Sustainable Music Festival. Foto Giovanni Battista Righetti

Tutto ciò che la parola “festival” evoca nell’immaginario collettivo è molto lontano dalla realtà se riferita a Terraforma, il festival di musica sperimentale e sostenibile che per tre giorni all’anno popola Villa Arconati di una folta fauna di visitatori. «Non voler essere il classico festival che arriva, sporca e poi va via» non vuol solo dire usare piatti e bicchieri biodegradabili, fare attenzione alla differenziata e non buttare i mozziconi per terra, ma anche saper inserire la manifestazione nel contesto preso in prestito da Madre Natura, facendo interagire musica, istallazioni, vibrazioni, uomini e alberi.

A Terraforma non si va (solo) per la lineup (che la maggioranza conosce solo approssimativamente), ma per l’impagabile sensazione di addentrarsi nel boschetto che c’è dopo il viale alberato della villa vivendo come tante piccole sorprese le chicche che la location ha in serbo per noi. Parecchi hanno scelto di campeggiare all’interno del festival, alcuni sono appena usciti dall’ufficio e hanno ancora addosso un completo scuro, altri sono impavidamente scalzi nonostante la pioggia che ci accompagnerà per tutta la durata del festival, tutti si sentono dei piccoli Indiana Jones “alla ricerca della Techno Perduta”. L’atmosfera che si respira a Terraforma non ha nulla della frenesia dei cugini “festival normali”: qui non si viene per divertirsi ma per evadere, invece di chiassose risate regna l’introspezione. Fra un panino vegan e un workshop di ceramica ecco chi abbiamo ascoltato.

Hamid Drake
In breve: daje di bonghi

«Questo pezzo è dedicato ai cinque elementi»: un festival del genere non potrebbe iniziare meglio. Hamid Drake è un percussionista afroamericano, fra i tanti ha inciso un paio di dischi con Herbie Hancock. Evoca un’atmosfera squisitamente voodoo con un live di sole percussioni e voce: di colpo la gente scalza comincia ad essere la maggioranza.

Charles Cohen
In breve: amo il sintetizzatore

Il lavoro di ricerca di Charles Cohen deve molto alla sperimentazione Don Buchia, nume tutelare dei sintetizzatori che Charles stesso cita come suo mentore. Un live magistralmente gestito a colpi di noise, ambient e jazz -il tutto con strumenti esclusivamente analogici: una vera rarità.

Bochum Welt
In breve: rave party a Lothlórien

Pubblicato dall’etichetta discografica Rephlex fondata da Aphex Twin, il suo disco Robotic Operating Buddy occupa la quindicesima posizione nella classifica mondiale dei dischi di elettronica stilata da The Wire. Per la felicità di molti arriva un po’ di cassa in quattro quarti, e la radura davanti al palco si trasforma in dancefloor.

Marco Shuttle
In breve: vinile vs birrette

Per riuscire a proporre al pubblico un dj set (rigorosamente con dischi in vinile) di musica sperimentale all’una di notte e dopo due live piuttosto danzerecci bisogna essere proprio bravi: qualcuno si prende una pausa per bere o mangiare qualcosa, ma la maggioranza rimane ad ascoltare a bocca aperta.

Robert Lippok
In breve: punk prima di te

Da anni protagonista dell’avanguardia berlinese, Robert Lippok è anche artista visuale. Suona campionatori e theremin, picchia sulla sua drum machine con dei legni raccolti da terra, il pubblico balla rapito. Dopotutto il suo debutto nel mondo della musica è avvenuto nel 1983 con una formazione punk: la musica cambia, l’approccio no.

Donato Dozzy & Nuel
In breve: tunz tunz tunz

La techno introspettiva serve a scindere mente e corpo: mentre il loop costringe il corpo a muoversi a tempo, l’immaginazione è libera di viaggiare. Alla teoria deve però seguire la pratica, e questo set ci sembra decisamente troppo monocorde e scarno anche considerando le dovute premesse.

291out
In breve: diario di dei nerd superstar

Una barzelletta racconta che finire le sigarette è l’unico motivo in grado di spingere un vero jazzista ad uscire dalla sala prove: se non lo fa per suonare dal vivo, può essere che non veda la luce del sole per anni. Ecco, immaginate il jazzista della barzelletta e vestitelo da pirata: otterrete i 291out. Unica formazione dell’intera lineup a non suonare musica elettronica, si esibiscono a fine festival sotto il portico della villa: ormai la pioggia ha vinto, e lo stage al centro del boschetto è assolutamente impraticabile. Risolti gli ovvi disguidi tecnici dovuti al cambio di location attaccano con un irresistibile funk progressivo condito di psichedelia e suggestioni elettroniche. Non immaginatevi però interminabili assolo o noiose digressioni troppo sperimentali: l’attitudine è scanzonata e divertente, fattore decisamente insolito per una formazione di questo genere. Fiati, sonorità jazz/blues e qualche loop: l’anello di congiunzione fra la musica organica e quella inorganica, cosa che, in un festival che ha come obiettivo quello di instaurare un dialogo fra arte e natura, non poteva certo mancare.

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