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Tra le braccia di Björk

L'artista islandese ieri a Roma per l'unica data italiana del tour di “Vulnicura”. Ecco come è andata
Il concerto di Björk all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 29 luglio - Foto di Musacchio & Ianniello - Dress by Emanuel Ungaro - Headpiece by J T Merry

Il concerto di Björk all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 29 luglio - Foto di Musacchio & Ianniello - Dress by Emanuel Ungaro - Headpiece by J T Merry

Björk l’avevo vista dal vivo solo una volta. Quasi quattordici anni fa, al Teatro dell’Opera di Roma.
Ricordo che all’annuncio di quel concerto non ero stato più nella pelle e, come accadeva quando Internet era ancora una bestia strana e indomabile, il giorno della messa in vendita dei biglietti mi ero fiondato di buon mattino davanti al punto vendita.
Pensavo che non ci avrei trovato nessuno, al massimo una decina di persone, e invece passai mezza giornata in una fila interminabile e noiosa. Fu un giorno terribile, infausto, che ebbe come apice in negativo il momento in cui il tizio della biglietteria – per i romani, il mitico “vecchietto di Orbis” – venne fuori solo per annunciare che il concerto era andato sold out. Biglietti finiti. Ciao.

Ciao Björk, ciao Islanda, e ciao Teatro dell’Opera.
Davanti a me in quel momento c’erano solo altre due persone. Bang. Oppure epic fail, come dicono i giovani.
Dall’annuncio di quelle date italiane del 2001 – l’altra era al Teatro Regio di Parma, al giorno stesso del concerto – il mondo era cambiato quelle quattro o cinque volte: c’era stato il G8 di Genova, l’omicidio di Carlo Giuliani e l’11 settembre.
Io avevo cominciato a svolgere il servizio civile e a Björk non avevo più pensato.

Il 10 novembre 2001 a Roma si tenne una grande manifestazione contro l’intervento americano in Afghanistan, una marcia da circa un milione di persone. Fu bellissimo ed emozionante, come erano bellissime ed emozionanti le manifestazioni quando ancora ci credevamo. Tornando a casa, con l’autobus – vorrei tanto ricordarmi il numero della linea, ma non ci riesco – passai davanti al Teatro dell’Opera.
Era tutto illuminato, agghindato a festa, pieno di gente che faceva la fila per entrare. Non ci pensai due volte: «Adesso scendo e vado un po’ a vedere che aria tira fuori il concerto di Björk».

Ad aprire le date di quel tour, quello di Vespertine, c’erano i Matmos, i co-produttori di quell’album, non proprio la cosa più “potabile” del mondo. Il loro set doveva essere cominciato da pochissimo, quando vidi uscire dal teatro un signore attempato con una donna, molto meno attempata e molto più appariscente di lui.
In realtà io non ci avevo neanche fatto caso e se non fosse stato per questo altro ragazzo sconosciuto, anche lui senza biglietto, non mi sarebbe mai venuta in mente l’idea di andargli a chiedere qualunque cosa. Figuriamoci il loro biglietto.

«Scusate, ma poi rientrate a vedere il concerto?», chiesi.
«Non ci pensiamo neanche per sogno. È uno schifo, mai sentita musica più orribile di questa», rispose il vecchio. «Ci potete dare i vostri biglietti, per ricordo?», incalzò l’altro ragazzo. E fu così che ci ritrovammo in un palchetto, io e lo sconosciuto, con il compianto Pietro Taricone e la figlia del Mago Zurlì. A un passo da Björk.

Di quel live ho ricordi poco nitidi se non la sensazione di avere assistito a un qualcosa di davvero speciale. Unico, quasi. E proprio nel momento in cui mi ero convinto che non sarei mai riuscito a entrare.
Forse è davvero questo il motivo per cui negli anni a seguire non sono più andato a vedere gli spettacoli della cantante islandese, non lo so. Fatto sta che ci sono tornato ora, ieri, dopo anni in cui la mia percezione, ma anche quella del resto dell’universo, nei confronti di Björk sembra essere radicalmente cambiata.
Una volta Björk mi sembrava un’opera d’arte mobile (ciao Dipré) dotata di braccia e gambe.
Negli ultimi tempi questa cosa pare essere diventata un problema anche per lei: condannata a dovere stupire. Sempre.
Del dopo Vespertine ho amato molto l’ostico Medulla, pochissimo Volta, ho completamente evitato Biophilia (ma ho fatto in tempo a odiarlo per tutto il discorso delle app) e sono rimasto piacevolmente stupito dall’ultimo Vulnicura. Un disco denso, dolente, a tratti quasi claustrofobico (e questo nonostante le aperture orchestrali), ma che ha una sua profonda ragione di esistere.

Arrivo in una Cavea gremitissima che il concerto sta per iniziare da un momento all’altro e mentre corro a prendere il mio posto vengo rapito da una scritta presente sullo schermo gigante. In pratica Björk chiede ai suoi fan di spegnere gli smartphone, non scattare foto e non riprendere porzioni dello show. Per non distrarla, dice, e per aiutare a sentirci davvero parte della performance. Ovviamente non posso non fotografare il cartello. «Lo faranno tutti», penso.

Inquadro il palco, realizzo lo scatto, lo posto su Facebook e aggiungo la didascalia: «E mo’ che famo?». Già, e mo’ che famo? Non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse scatenare un dibattito. E invece lo ha fatto: ci sono quelli per cui: «Che palle questa, come si permette!» e quelli che la innalzano a eroina che combatte contro le brutture della modernità. La cosa davvero incredibile è sempre la stessa: per noi italiani tutto è buono per scadere in dinamiche da tifoseria. Guelfi contro Ghibellini. Sempre. Da sempre. Fatto sta che il concerto di Björk comincia e prima ancora che lei salga sul palco davanti a me ci sono decine di telefonini alzati verso il cielo.
Ci sono quelli che lo fanno in maniera discreta, addirittura si nascondono, e quelli che vanno di flash sparato dritto in faccia. Quelli con l’iPhone e quelli con la Go-Pro. Quelli col tablet e quelli con la reflex.

Si sa, noi siamo fatti così: ci basta essere messi di fronte alla durezza di una regola per sentirci in dovere di non rispettarla. Anni fa mi capitò di andare a vedere Pj Harvey a Milano in un posto che allora si chiamava Pala Lido. Polly Jean aveva fatto riempire il palazzetto di cartelli: “Vietato fumare”. Aveva la laringite e ogni volta che qualcuno provava ad accendere una sigaretta quelli della sicurezza si lanciavano sul suddetto in modalità squadrone della morte. Lo so perché ne ho fatto le spese. Ero giovane e all’epoca andare a vedere un concerto senza farmi una canna mi sembrava impensabile.
Niente squadroni, invece, per Björk. Anzi, niente di niente. Tutti filmano, fotografano, registrano senza che nessuno dica nulla. Neanche lei sembra essere particolarmente infastidita.

Björk all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 29 luglio – Foto di Musacchio & Ianniello – Dress by Emanuel Ungaro – Headpiece by J T Merry

Sul palco c’è una nutrita orchestra d’archi (cinque viole, cinque violini, quattro violoncelli), Manu Delago, spettacolare, alle percussioni sia acustiche che elettroniche e Arca, il co-produttore di Vulnicura, alle macchine. Björk sembra in grande, grandissima forma, indossa un lungo abito rosso con lo spacco e ha il volto coperto come in tutte le apparizioni recenti. Vocalmente, poi, non si discute: inizia che sembra un po’ affaticata ma ci mette davvero un attimo a conquistare tutti. Ogni suo piccolo gesto, ogni movimento, viene accolto con delle ovazioni assordanti. Il carisma non è mai stato messo in discussione, ma l’affetto del pubblico è davvero palpabile. Lei può permettersi di tutto. Da lei accetteresti di tutto.
Le sue movenze sempre in bilico tra goffaggine e poesia, sembrano l’anello di congiunzione tra la danza figurativa e i balletti di Cochi e Renato. Pina Bausch e La canzone intelligente.

Il senso di Björk è tutto lì, in quelle piccole cose che addosso ad altri, fatte da altri, sembrerebbero ridicole ma che invece appaiono bellissime. Piccoli tratti importanti di un quadro dotato di molteplici dettagli e sfaccettature. Sullo schermo scorrono uno dopo l’altro, pezzo dopo pezzo, dei visual che vanno dalla rappresentazione grafica del suono, a piccoli filmati in cui viene mostrato l’accoppiamento e la riproduzione di vari animaletti. Altri, invece, sono veri e propri video clip: c’è quello di Wanderlust, durante Wanderlust, e quello di Stonemilker durante Stonemilker. A un certo punto passa anche il clip che un pool di esperti ha già definito: «Quello della fica in petto da cui esce l’erba».
Non mancano poi i fuochi d’artificio e i cannoni spara fuoco, l’elemento da matrimonio napoletano di uno show che in realtà è super raffinato e intenso. Forse anche troppo.
Il live dura solo un’ora e un quarto, Björk non regala nulla. Mai. Durante il bis la gente si alza e corre sottopalco e a lei, tutt’altro che “fredda”, non sembra importare poi molto.
Il suo non è un concerto celebrativo: la fanno da padrone i brani di Vulnicura e anche i ripescaggi del passato vengono scelti per stare bene con la scaletta dell’ultimo album.
Nessun singolone, quindi. Niente Hyperballad, niente Unravel, niente Bachelorette.
Durante lo spettacolo si ritaglia in un momento per i pezzi più che vecchi che suona in fila, uno dopo l’altro: Come to me, tratta da Debut, Pleasure Is All Mine, da Medulla, I See Who You Are, da Volta, Harm of Will, da Vespertine , e All Neon Like da Homogenic. Quando parte Wanderlust, non proprio la migliore delle sue hit, l’accoglienza è da stadio.

Il concerto finisce e rimango un attimo perplesso, poi però comincio a ragionare meglio sulla cosa a cui ho appena assistito: in anni di recupero costante del passato, è bello che ci siano artisti che ancora possano permettersi di salire sul palco e fare esattamente il concerto che vogliono fare.
Questo è il tour di VulnicuraEd è bellissimo proprio in quanto tale.
Come un atto di libertà e stravaganza creativa.

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