'This is America', ovvero come Trump ha costretto il rap a parlare di politica | Rolling Stone Italia
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‘This is America’, ovvero come Trump ha costretto il rap a parlare di politica

Dopo la grande sbronza Obama e i selfie alla Casa Bianca, le superstar dell'hip hop devono di nuovo fare i conti con il razzismo, con un'America che non li vuole sull'uscio. Anche senza i grillz della trap e "l'energia drago" di Kanye West

‘This is America’, ovvero come Trump ha costretto il rap a parlare di politica

Che Dio non stesse poi così bene lo aveva già anticipato Nietzsche nel 1882. Nonostante ciò sulle banconote americane campeggia ancora la scritta “In God We Trust”, ed è quasi un ossimoro a questo punto. Non è facile trovare Dio in giro oggi, se non sui soldi. Se quindi la vita eterna non esiste, almeno godiamocela quaggiù: nella musica, nei social network, in politica; nella vita quotidiana quella di Dio e della morale sono immagini sbiadite.

Nel suo ultimo clamoroso video, Donald Glover fa fare al suo alter-ego Childish Gambino (lo pseudonimo rap che Donald ha creato tramite un generatore casuale di nomi hip hop) alcune cose molto brutte: all’inizio della seconda strofa di This Is America, il rapper mitraglia un intero angelico coro gospel e fa una strage. Un’immagine davvero troppo ricorrente nella cronaca statunitense degli ultimi anni, quella dei mass shooting, tanto frequente da far pensare a qualcosa a cui ci si è lentamente abituati. Ed è con la nonchalance dell’abitudine che Donald Glover la rappresenta nell’iper-simbolico video di This Is America. La love story americana per le armi oggi è al suo apice e alla resa dei conti. Il conflitto tra le imponenti marce popolari e la National Rifle Association, da sempre impermeabile a qualsiasi protesta, è argomento quotidiano.

La musica rap è ormai riconosciuta come l’unico genere musicale ad avere rilevanza effettiva al di fuori dell’intrattenimento, e una ricaduta sociale e politica reale, concreta, anche se negli ultimi anni aveva preso una piega decisamente decadente, artisticamente lussureggiante, seppur gradevole, ma contenutisticamente vuota, senza un significato oltre all’apparenza. Il rap da sempre è il racconto diretto della realtà in cui è immerso, e negli anni di Barack Obama si era finalmente concesso il lusso di non dire granché, di incrociare le dita dietro la testa e mettere i piedi sulla scrivania per godersi il gusto del traguardo raggiunto. I rapper negli anni sono diventati ricchi veramente, senza più spararsi a vicenda e capitalizzando le molte competenze e nozioni acquisite tra lo smazzo in strada e quello a Wall Street, arrivando a flirtare sia con l’alta moda sia con l’alta finanza. L’hip hop ha superato il rock come percentuale di mercato musicale, celebrando il lusso che oggi si può permettere. Non si può pensare, invece, che un simile traguardo sia slegato dal successo politico di Obama e della sua presidenza, vissuta da tutte le minoranze discriminate (leggi minoranze etniche e donne, seppur maggioranza numerica) come un successo inaspettato.

Barack Obama ha portato una stranissima aria di normalità, uguaglianza e democrazia al potere: nel 2015 la figlia Malia si è scattata un selfie con la t-shirt del collettivo di Joey Bada$$, un rapper di New York che gravita attorno al gruppo Pro Era – che sta appunto per Progressive Era –, dai testi impegnati, nonostante la sua giovanissima età. Michelle Obama nel frattempo coltivava verdure con bambini e ragazzini nell’orto della Casa Bianca, al fine di creare consapevolezza sull’importanza della nutrizione dei più giovani. Negli otto anni di Obama, la dimora del presidente si è riempita più volte di rapper di successo e donne indipendenti e, per il suo 55esimo compleanno, la foto celebrativa nell’Ufficio Ovale sembrava scattata nel backstage del Rolling Loud Festival: Timbaland, Kendrick Lamar, J. Cole, Chance The Rapper, Janelle Monae, Beyoncé, DJ Khaled e perfino Pusha T e Rick Ross, tra gli altri, attorniano un sorridentissimo Barack Obama, all’apice del riconoscimento popolare e politico. Si era portato con sé l’intera classe degli eterni secondi.

Tutti questi sorrisi, nel frattempo, stavano generando altrove diversi sopraccigli alzati: veramente Kendrick Lamar, Beyoncé e quelli come loro avevano così facilmente accesso al potere di prima mano? Nella Casa Bianca sono entrate troppe donne, troppe minoranze etniche per non suscitare un contraccolpo. Quindi, nel novembre 2016, finito il secondo e ultimo giro sulla giostra dei “populisti” di Obama, e aperte nuovamente le urne elettorali, ecco uscirne fuori Donald Trump, il personaggio televisivo dell’ultimo ventennio, un Silvio Berlusconi americano virato sull’arancione. Capace di mostrare a ogni occasione quale tipologia di persona debba entrare alla Casa Bianca: uomini, bianchi, ricchi, vecchi. Fine della gita. E nell’orto oggi c’è Melania Trump, che si fa fotografare mentre raccoglie la verdura indossando una camicia di Balmain che costa 1.380 dollari.

Look how I’m livin’ now / Police be trippin’ now / Yeah, this is America / Guns in my area / I got the strap / I gotta carry ‘em

Intervistato recentemente da David Letterman su Netflix, Jay-Z ha spiegato perché l’amministrazione Trump è “una cosa grandiosa” per l’America. Per il rapper newyorkese Trump sta obbligando gli americani a sostenere una conversazione su argomenti non facili, cosa che non sarebbe possibile se i problemi non fossero così palesi ed evidenti. “Trump sta portando con sé un lato orribile dell’America che erroneamente pensavamo fosse sparito. Invece è ancora qui, ben presente, è tra noi. E noi dobbiamo confrontarci con questa cosa, affrontare delle discussioni sul fatto che gli uomini bianchi di un certo status sociale riescano ancora a concentrare il potere in mano loro e godano di un privilegio totale nella nostra società”.

Forse Kanye West voleva dire questo con le sue ultime sparate via Twitter e TMZ? Forse, ma non proprio. Magari non è riuscito a esprimersi come avrebbe voluto perché la moglie, Kim Kardashian, è la first lady di Instagram e anche perché con la moda Kanye ha preso una tranvata totale, e oggi la considera un potente mezzo espressivo, al pari della musica, anche più della musica. E ci crede tantissimo. Sue le sneaker più ricercate ed innovative al mondo, ma a parte questo, non so… Tra Yeezus e le Yeezy continuo a preferire il primo, perché in New Slaves (2013) si dice “Spendin’ everything on Alexander Wang, new slaves”. I nuovi schiavi sono quelli che, solo per sentirsi meglio, sono costretti a comprarsi una giacca di Alexander Wang da 2.500 dollari.

In cinque anni, però, sono cambiate molte cose. Kanye sembra più che altro in preda alla peggiore sindrome di Stoccolma, dove, come si legge su Wikipedia, “il soggetto, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice”. In piena confusione dice che Supreme è lo scudo che fa in modo che un ragazzino non venga bullizzato, quando, invece, quello è uno degli ulteriori motivi per cui si creano gli schieramenti e le diversità di chi ha e chi non può permetterselo. Kanye dice che lui e Donald Trump hanno la stessa “energia drago” e che lo ammira. Ma ha anche un paio di album presto in uscita, che potrebbero motivare le sparate a zero. Dice anche tante altre cose che alzano un gran polverone, prima tra tutti quella secondo cui gli afroamericani sono rimasti in schiavitù per oltre 400 anni come se ne fossero stati complici consenzienti. WTF. Chissà se basteranno due album ben fatti a sciogliere questa epic fail, vista e commentata sul web da milioni di persone.

Kanye nelle sue ultime interviste cita spesso Get Out, il thriller culto della scorsa stagione, e dice di sentirsi come il protagonista, che deve cercare di fuggire dopo essere sprofondato nel sunken place, appunto, nel mondo sommerso. Il regista Jordan Peele racconta così un’altra metafora artistica della realtà sociale americana attuale: “Il mondo sommerso è il sistema che zittisce le voci delle donne, delle minoranze e delle persone che non la pensano come il potere vuole. Ogni giorno abbiamo la prova di essere nel mondo sommerso”. Se Kanye si dibatte dentro e fuori il mondo sommerso senza trovare ancora una via d’uscita, sono invece molti i rapper a riemergere con veemenza dagli anni di Obama in cui, felici e interdetti, si trovavano spaesati nel racconto di una protesta di cui non c’era poi così tanto bisogno. Se con Obama era nata la concreta illusione che i vecchi problemi dell’America fossero stati risolti, con Trump il risveglio è stato brutale. Cos’è l’America, oggi?

Look how I’m geekin’ out / I’m so fitted / I’m on Gucci / I’m so pretty / I’m gon’ get it / Watch me move

La scrittura nel rap ha un’onda lunga. Quello che ascoltate oggi è stato concepito qualche mese fa, come un bambino. Ci vuole tempo per passare dalla testa alla carta, dal microfono a Spotify/YouTube, fino al successo. Quindi tutti i Tekashi69, i Lil’ Pump, Lil’ Xan, Lil’ Peep, che conoscete oggi come piccole star, sono stati concepiti in un’era in cui la protesta era superflua, quasi inutile, un po’ perché Obama era al potere e garantiva per le minoranze, ma soprattutto perché, per qualche effetto collaterale della lunga e strisciante crisi economica, negli ultimi anni si è verificato in tutto il mondo occidentale un incredibile culto del lusso sfrenato, tanto che, a confronto delle giovani generazioni attuali, i paninari degli anni ’80 sembrano dei poveri straccioni. Gucci Gang. La discussione sul razzismo allora era necessaria? Con un presidente nero?! No, era il momento di celebrare, di mettere in mostra il tuo outfit, di far festa o tutt’al più di calmare l’ansia della noia e della mancanza di obiettivi con dosi extra di psicofarmaci, di ballare, scopare, bere, fumare e contare i soldi. Basta. Per anni i testi nel rap sono stati un po’ questi… Ed erano diventati talmente tanto amichevoli, brandizzati, ballabili e sballoni che li potevano fare bene perfino i ragazzi bianchi texani alla Post Malone.

Ma ora che il sogno è svanito? Ora che l’ala razzista della polizia torna a poter fare discriminazione palese, senza condanna? Ora che gli immigrati possono essere rimpatriati vigorosamente senza appello? Ora che la facile disponibilità delle armi automatiche non viene più minimamente messa in discussione dalla presidenza, che addirittura propone di armare i professori a scuola?

Grandma told me / Get your money, Black man / Get your money, Black man / Black man

Prenditi i soldi. Questo è stato per anni il mantra. Ma che colore ha la voce della protesta nell’era di Trump? Qual è il ruolo del rap all’interno di questo dissenso? Quali sono i rapper della nuova generazione in grado di trovare un linguaggio per sfondare il muro del silenzio e riunire ancora una volta un movimento oggi frammentato ed egocentrico? Kendrick aveva predetto tutto in tempi non sospetti nello spettacolare video di Alright, uscito nel 2015 in bianco e nero, con la stessa magia di This Is America, ma un attimo troppo presto rispetto all’invasione delle varie Gucci Gang.

J. Cole, Childish Gambino, Vince Staples, Joey Bada$$, Logic, YG, Nipsey Hussle usano parole, metriche e immagini nuove, in grado di ridare importanza e brillantezza al messaggio, pur mantenendo la totale freschezza della forma, senza essere mai né pedanti né nostalgici. La formula magica è un po’ questa: archiviati i tempi militanti, analogici ed espliciti di Fight the Power dei Public Enemy o dei live dei Rage Against The Machine, oggi la protesta è anche digitale, elegante, dignitosa, consapevole, composta e fortemente artistica, perché chi la porta avanti ha molto più da perdere rispetto ai propri predecessori, ma non per questo si percepisce meno rabbia contro la macchina. Il rap è pur sempre la CNN (o la diretta Instagram) delle nuove generazioni. Qualunque esse siano.

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