"The Wall", un’opera rock che non teme rivali | Rolling Stone Italia
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“The Wall”, un’opera rock che non teme rivali

Ossessionato dalla morte del padre nella Seconda Guerra Mondiale, irrequieto nella gabbia della fama, Waters ha affrontato i suoi problemi come una vera rockstar: ha messo tutto se stesso in un album, il più personale e il più ambizioso dei Pink Floyd

1980, Los Angeles, California, USA --- Pink Floyd at the Los Angeles Sports Arena --- Image by © Neal Preston/Corbis

1980, Los Angeles, California, USA --- Pink Floyd at the Los Angeles Sports Arena --- Image by © Neal Preston/Corbis

Articolo pubblicato su Rolling Stone USA l’8 dicembre 1979

Quella sera è scattato qualcosa in Waters. Era il 6 luglio 1977, all’Olympic Stadium, la tappa conclusiva del tour di Animals. C’era uno spettatore in prima fila che non smetteva di urlare, mentre Waters tentava di cantare. E allora il bassista gli ha fatto cenno di avvicinarsi al palco. E gli ha sputato addosso.

«Una cosa veramente da fascisti», ha ammesso Waters a Rolling Stone nel 1982. «Durante quel tour – che ho vissuto malissimo – avevo già capito che qualcosa non andava. Non mi sentivo in contatto con il pubblico. Non erano più persone; erano diventate “quella cosa lì”, il mostro. Sentivo un’enorme barriera tra la gente e quello che cercavo di fare».

Waters non era la prima rockstar degli anni ’70 a sentire questo tipo di disgusto per il pubblico. Ma l’incidente dello sputo lo ha scosso dal suo torpore e lo ha portato a chiedersi perché guardava ai suoi ammiratori pensando: “C’è qualcuno là fuori?”. È stato lo sputo più significativo della storia del rock, perché Waters ha preso tutta quell’alienazione e l’ha trasformata nella sua espressione più personale. The Wall è l’album in cui ha dato voce alla sua ostilità antisociale, ma paradossalmente ha reso i Pink Floyd più popolari che mai.

The Wall è l’ultimo e il più imponente concept album art-rock degli anni ’70, un doppio vinile che intona il requiem di un decennio. Ha dominato le classifiche Usa per 15 settimane, tanto da ottenere 23 dischi di platino. Per quasi 90 minuti, Waters racconta la storia semiautobiografica di una rockstar: il padre morto nella Seconda Guerra Mondiale, un’infanzia infelice, poi la fama, il denaro, le droghe, l’egomania, una psiche sull’orlo del collasso irreversibile. «Ho cercato di analizzare la mia vita», ha detto Waters, «e in qualche misura ci sono riuscito».

Pur avendo una cupezza molto inglese, The Wall ha conquistato i ragazzi di tutto il mondo. Another Brick in the Wall Part 2 ha svettato nelle classifiche americane. A migliaia di chilometri da Londra, nei quartieri centromeridionali di Los Angeles, Ice Cube lo ascoltava. «Lo passavano spesso alla radio, anche sulle stazioni di musica nera», ha detto Ice Cube alla rivista Uncut. «È un pezzo veramente grande. Ricordo che marciavamo in cortile cantando le parole di quella canzone: “Non abbiamo bisogno di un’istruzione / Non abbiamo bisogno del controllo del pensiero”. L’idea che tutti quanti siamo solo mattoni in un muro, solo pacchetti di identità che il sistema richiede: è questa la merda. È una cosa reale. Ed è vera. È vera ancora oggi».
The Wall contiene alcuni dei brani più famosi dei Pink Floyd: Comfortably Numb, Hey You, Mother, Run Like Hell. Ma è ideato per essere esperito come unità organica. Waters e il coproduttore Bob Ezrin hanno elaborato complessi effetti in studio per illustrare la disgregazione mentale della rockstar in una società repressiva. La rockstar (che potrebbe chiamarsi “Pink” o “Mr. Floyd” o “Simon”) cresce senza padre tra i rigori e le privazioni dell’Inghilterra postbellica. Costruisce intorno a sé un muro di difese psichiche, nascondendosi dai suoi insegnanti, da sua madre, da sua moglie, dai medici che lo imbottiscono di sedativi prima dello spettacolo. Assiste al risorgere del fascismo nell’era del Fronte Nazionale Britannico, mentre Margaret Thatcher sta per salire al potere. E riversa la sua aggressività sui ragazzi del pubblico. Nel momento culminante di In the Flesh, sale sul palco di un teatro pieno di ammiratori, e grida: «Se dipendesse da me, vi metterei tutti al muro!».
L’asprezza della musica rifletteva le inquietudini del gruppo, mentre i Pink Floyd cominciavano a sgretolarsi. Anche per i loro standard, le sessioni erano troppo tese. «Forse incutevo paura», ha dichiarato Waters a distanza di tempo, addolcito dall’età (e da due decenni di terapia). «Avevo la tendenza a sparare a zero». Quando The Wall è uscito, Waters aveva già estromesso Wright, il tastierista, anche se poi l’ha richiamato per il tour come turnista. Tra i crediti dell’album, Wright non compare, come non compare Mason, il batterista.
«Beh, sai, nessuno di noi era il migliore amico dell’altro», ha detto Gilmour a Rolling Stone nel 1982, con arguzia britannica. «Non sono mai stato intimo amico di altri membri della band».
Waters ha composto The Wall da solo, nello studio della sua casa di campagna. Come ha dichiarato Wright in un’intervista a Mojo nel 1999 con ammirevole franchezza: «C’erano alcune cose per cui pensavo: “Oh, no, ci risiamo: ruota tutto intorno alla guerra, a sua madre, alla perdita del padre”. Speravo che potesse superare tutto questo e potesse affrontare altre tematiche, ma aveva una fissazione».
Ma i Floyd avevano urgenza di fare un altro album; erano sull’orlo della bancarotta. «Forse se non ci fossimo trovati in quella situazione finanziaria, avremmo detto: “Bene, questi pezzi non ci piacciono”, e le cose sarebbero andate diversamente», ha spiegato Wright. «Ma Roger aveva quel materiale, e io e Dave non avevamo nulla, perciò l’abbiamo fatto».
Il gruppo ha registrato a Londra, in Francia e a Los Angeles per circa un anno. Ma nessuno si illudeva che il progetto implicasse una vera e propria collaborazione. Waters ha assunto il comando, con Ezrin che faceva il possibile per mediare i conflitti. «Non fingevamo più tra noi», ha detto Waters. «Negli anni ’70, tutti facevamo finta di essere un gruppo. Fingevamo che noi facessimo insieme questo e quest’altro, ma ovviamente non era vero».
Another Brick in the Wall è stato ispirato dai ritmi innovativi degli Chic. Come ha ricordato Ezrin: «Avevo appena finito una sessione a New York, e nello studio accanto c’erano Nile Rodgers e Bernard Edwards. Ho sentito questo ritmo e mi sono detto: “Caspita, funzionerebbe alla grande nel rock!”». Il coro è cantato dagli allievi di una scuola che sorgeva poco lontano dallo studio, la Islington Green School. Il brano finiva con un assolo di Gilmour dal sapore vagamente blues e con la voce arcigna di un insegnante che negava il dolce ai ragazzi.
Uno dei pochi brani che portano anche la firma di Gilmour è Comfortably Numb, la sua ultima, vera collaborazione con Waters. Comfortably Numb, che in origine era un demo, è entrata a far parte di The Wall quando Waters ha aggiunto il testo. È un raro momento di sollievo in un album implacabilmente amaro, con poca melodia e molta bile. La cosa più vicina a un diversivo comico in The Wall è il giudice di The Trial, il quale lamenta che la disposizione gli “induce l’urgenza di defecare”. Ma pur con tutta la sua severità, The Wall contiene anche commoventi elegie come Hey You o la meno acclamata Nobody Home, in cui la rockstar siede in trance davanti alla tv: “Ho macchie di nicotina sulle dita, ho un cucchiaio d’argento appeso a una catena, ho un pianoforte a coda su cui appoggiare le mie spoglie mortali”.

The Wall è uscito pochi mesi dopo un album di Michael Jackson dal titolo simile, Off the Wall, e sorprendentemente i due dischi hanno molto in comune, poiché entrambi esplorano i vari modi in cui un giovane sensibile può subire la pressione della celebrità. (Jackson, però, ha retto “il muro” meglio di altri). L’album dei Floyd è stato un insospettabile successo pop, che ha portato questi artisti austeri nella Top 40 delle stazioni radio – Another Brick in the Wall è rimasta al n.1 per quattro settimane, tra Crazy Little Thing Called Love dei Queen e Call Me dei Blondie. In una delle settimane in cui il brano ha dominato la classifica, Casey Kasem ha fornito agli ascoltatori una pratica sinossi della trama dell’album.
Il tour del 1980 ha portato sul palco il più grande spettacolo rock del suo tempo, con i mostruosi pupazzi e le maschere di Gerald Scarfe, l’animazione e un muro gigantesco, largo circa 50 metri e alto 10 metri, che veniva eretto gradualmente nel corso dell’esibizione e poi distrutto nel gran finale. Il programma del tour annunciava “The Wall: scritto e diretto da Roger Waters. Eseguito dai Pink Floyd”. Non si fingeva nessuna collaborazione. Come ha detto Mason, «non c’era molta spontaneità, ma del resto non siamo famosi per le mosse e i volteggi sul palco». Il regista Alan Parker, reduce dal successo ottenuto con Fame due anni prima, ha trasformato The Wall in un film, uscito nel 1982 e interpretato da Bob Geldof, quasi completamente privo di dialoghi e senza alcuna apparizione del gruppo. Waters ha dichiarato che quello della lavorazione del film «è stato il periodo più nevrotico e snervante della mia vita, a eccezione forse del divorzio nel 1975». Waters ha riproposto lo spettacolo dal vivo nel 2010 senza nessuno degli ex compagni, dichiarando: «Nell’allestire questa produzione, ho la stessa responsabilità che aveva Picasso quando ha dipinto Guernica».
In tutte le sue versioni, The Wall rimane un’opera poderosa perché affronta un problema fondamentale dell’uomo: la lotta interiore per entrare in contatto con gli altri, invece di ritirarsi dietro al muro che ha costruito nella sua mente. Come ha detto Waters a RS: «Viene demolito mattone dopo mattone. È questo che significa crescere. Direi che si tratta di smantellare il muro, mattone dopo mattone, e scoprire che quando abbattiamo le nostre difese, diventiamo più amabili».

The Wall - Pink Floyd

The Wall – Pink Floyd

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