"The Ties That Bind": viaggio nella mente di Bruce Springsteen | Rolling Stone Italia
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“The Ties That Bind”: viaggio nella mente di Bruce Springsteen

Nel box-set, dedicato allo storico album "The River" in uscita il 4 dicembre, è presente anche il documentario sulla vita del boss. Lo abbiamo visto in anteprima per voi

Bruce Springsteen

«Una storia non è una vita vera. Una storia è solo una storia». Bruce Springsteen è seduto tra gli alberi del suo ranch di Colt Neck, New Jersey. Sullo sfondo si vede un garage pieno di attrezzi. Tiene una chitarra acustica stretta a sé, e ha quell’espressione intensa e solida che l’età gli ha regalato. Si ferma un attimo a guardare da qualche parte, poi fissa gli occhi nella telecamera e racconta la genesi di The River, il suo primo album doppio, numero uno in America il 17 ottobre del 1980.

«Ero arrivato a un punto in cui la mia vita era diventata una storia. Ma quando arrivi a 30 anni inizi a operare nel mondo degli adulti, ti confronti con temi importanti come l’amore, la morte, il tempo limitato che tutti abbiamo a disposizione. Ho sentito l’esigenza di trasformare tutte queste idee in cose pratiche. Sentivo che se non l’avessi fatto mi sarei perso, sarei scomparso per sempre». Il documentario The Ties That Bind, contenuto nel box set The River Collection in uscita il 4 dicembre e girato da Thom Zimny (il regista di fiducia di Bruce, che ha già firmato quelli su Darkness on the Edge of Town e Born to Run oltre ad aver realizzato con lui il cortometraggio Hunter of Invisible Game) è un viaggio nella mente di Springsteen raccontato nella sua pura essenza.

Bruce Springsteen in studio durante la registrazione di The River

Bruce Springsteen in studio durante la registrazione di The River

Qualche immagine di repertorio (con alcune chicche come la festa di matrimonio del batterista Max Weinberg con la moglie Becky nel 1981), le prove in studio di The River ai Power Station di New York, con la E Street Band in giacca e camicia che si allontana dall’estetica da gang di Asbury Park, ma soprattutto Bruce a casa sua, in maglietta e chitarra e con l’inquadratura sempre stretta sul viso, impegnato a ricordare il suo passaggio da ragazzo a uomo adulto, da sbandato di strada a icona riluttante di un sistema di valori che ha interpretato come nessun altro ma che non ha mai voluto indossare come bandiera.

«Cercavo solo di salvare me stesso dalle mie inclinazioni più oscure entrando nella vita di una comunità di persone che stava lottando per costruire qualcosa». Per scrivere The River, nel 1979 Bruce si rifugia in un altro ranch del New Jersey, Telegraph Hill: «La mia famiglia si era trasferita in California, avevo perso il contatto con quella che era rimasta nel New Jersey. Ascoltavo molto country, una musica che parlava di questioni della vita adulta. Ho scritto le canzoni da solo, con un registratore a cassetta, la chitarra acustica e il mio quaderno. Volevo uscire dall’isolamento di Darkness on the Edge of Town e per la prima volta ho scelto di scrivere in modo narrativo, entrando nella vita delle persone. Era un mistero per me come la gente potesse riuscire a farsi avanti nella vita. Tutte le canzoni parlano di questo».

Prende la chitarra e l’armonica a bocca, attacca la prima strofa di The River e la spiega: «”Vengo da un posto in fondo alla valle”: è una presa di posizione rischiosa, sto immaginando il mondo e la vita di altre persone. Ma secondo me è questo il compito dello scrittore». È anche il significato importante del documentario The Ties That Bind, che con il suo ritmo lento e profondo si affianca perfettamente nel box set The River Collection al travolgente concerto inedito alla Arizona State University di Tempe, Arizona del 5 novembre 1980. Thom Zimny è riuscito a raccontare Springsteen come uno dei protagonisti della narrativa americana contemporanea, uno scrittore solitario e tormentato (solo due anni dopo la forza di The River arriverà il desolante minimalismo acustico di Nebraska) che solo quando prende il suo posto al centro del palco con la macchina da guerra rock’n’roll della E Street Band («La gloriosa band da bar» come la definisce lui) è in grado di trasformare la sua visione cruda e romantica della realtà in grandioso intrattenimento. «Non volevo essere solo un semplice commentatore, volevo provare a diventare parte di quello che stava succedendo. Quando scrivi settanta canzoni vuol dire che sei in cerca di qualcosa». Da quelle settanta canzoni, in due session di registrazione tra il marzo e il settembre del 1979, Bruce tira fuori prima un album singolo, poi il primo album doppio della sua carriera: «Stavo letteralmente scavando fuori la mia identità e quella della mia band. Non avevo idea di che disco stessi facendo, ma sapevo dove volevo arrivare. La decisione di fare un album doppio mi ha dato la libertà che cercavo. Mi ricordo che sono tornato a casa e ho scritto Hungry Heart».

Bruce Springsteen - Ramrod (The River Tour, Tempe 1980)

Springsteen cercava qualcosa che raggiungesse il pubblico e lo catturasse, un disco con una personalità definita che raccontasse la società del suo tempo, la vita delle persone intorno a lui e la sua crescita personale, riuscendo nel frattempo a far divertire tutti in un bar al sabato sera. The River è il punto finale della sua ricerca e il disco definitivo dello spirito della E Street Band: «Una serie di conversazioni intime sui temi che avevano giocato un ruolo nella mia storia personale» lo definisce Springsteen. Un disco che dopo l’entusiasmo di Out in the Street e Sherry Darling e i temi sociali di The River e Independence Day termina con la discesa nella malinconia dell’ultimo lato del vinile (con le ballad The Price You Pay, Drive All Night e Wreck on the Highway), in cui Bruce scende dal palco e torna a camminare da solo.
Perché come dice con un sorriso in una delle ultime, strettissime inquadrature del documentario: «Volevo lasciare gli ascoltatori da soli con i loro pensieri».

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