Incontro Steve Rothery nella hall dell’hotel che lo ospita, la sera prima del concerto della sua band al teatro dal Verme di Milano. Mi tremano le gambe, ho la lingua fantozzianamente felpata. Davide Costa (l’uomo che ha permesso questo appuntamento) mi viene incontro sorridente: “Sei felice?” mi chiede. “Sì”, la mia risposta strozzata. Sono Marco Mazzocchi, ho quasi 52 anni e da 30 faccio il giornalista sportivo in Rai.
Ho fatto dirette di ogni genere davanti a milioni di persone ma di fronte a God (noi fan dei Marillion chiamiamo così Steve Rothery) sono bloccato. Per me i Marillion (Rothery in particolare) sono una religione. Gli ultimi baluardi del Progressive Rock, quello dei Genesis, dei Pink Floyd, ma anche della PFM, del Banco e de Le Orme (“Amore mio, scrivo per te una canzone, lascio i problemi un momento, voglio pensare un po’ a te”). Sto realizzando un sogno: vedere, conoscere, toccare, parlare col mio mito.
Sono un ragazzino. Calvo. Con la barba bianca. Ma sempre un ragazzino. Davide mi sputtana subito mostrando a Steve un video nel quale, durante una mia trasmissione, lo scimmiotto imbracciando una chitarra. Vorrei scappare dalla vergogna. Rothery scoppia a ridere: «Questo video è geniale! Lo trovo su youtube? Fantastico vedere l’effetto che fa la nostra musica sulle persone!».
Mi sciolgo, gli svelo la mia ormai più che trentennale passione per i Marillion e gli mostro il tatuaggio sull’avambraccio destro. «Aaahh, il Jester (il Giullare), il simbolo che Mark Wilkinson creò per il nostro album d’esordio Script for a Jester’s tear (1983) e che ha caratterizzato tutte le nostre prime copertine! Le persone entrarono nel nostro mondo grazie anche al potere di questa immagine, si creò subito un legame molto forte». Al punto che io me lo sono tatuato.
«Beh (ride) sempre meglio che avere il nome della ex-fidanzata!». L’incontro diventa una chiacchierata, la chiacchierata questa sorta di intervista. Steve, dimmi, il Giullare è morto? «Credo rappresenti un periodo ormai lontano, il primo capitolo della nostra storia. Da quando Fish (il primo cantante) ci lasciò abbiamo pubblicato altri 13 album. Ho ricordi pazzeschi… eravamo così ingenui e tutto era così naif! Fu impressionante ascoltare le nostre canzoni alla radio. Il Jester rappresenta tutte quelle emozioni».
Quindi il jester è un’emozione, quindi è vivo, quindi non devo segarmi il braccio. Script, Fugazi: i primi due album. Poi, nel 1985, il boom con Misplaced Childhood e la canzone-cult Kayleigh. «Forse con Misplaced Childhood inizia il nostro secondo capitolo: ti rivelo che prima della sua pubblicazione la EMI era a un passo dal licenziarci. Eravamo convinti che sarebbe accaduto, per cui ci incaponimmo per realizzare un concept album. Volevamo chiudere in bellezza. Invece scoprimmo che il concept era per noi il modo più naturale di fare musica. Il modo più libero, che ignora la classica forma canzone».
L’album è un successo, forse i Marillion ne vengono travolti. Ancora un album (Clutching at straws, 1987) e Fish lascia il gruppo. Lo sostituisce Steve Hogarth, la loro musica col tempo si trasforma, ma resta la sperimentazione tipica del progressive. Soprattutto restano gli assolo di Steve Rothery. «Ti dirò, il solo che mi piace di più è il secondo sulla suite This Strange Engine (1997)». E la canzone? «Mmmm, difficile dirlo. Penso a Out of This World (1995), che racconta l’ultimo giorno di vita di Donald Campbell, l’uomo che realizzò tutti i record di velocità sia su terra che sull’acqua: morì il 4 gennaio del 1967 proprio tentando l’ennesima impresa, il nostro brano ispirò l’operazione che portò nel 2001 al ritrovamento dei resti del battello col suo corpo. Ma forse The Great Escape da Brave (1994) è, come l’intero album, la canzone che possiede tutti gli elementi che caratterizzano i Marillion».
Da oltre trenta anni, mi emoziono ascoltando la vostra musica, faccio carte false per venire ai vostri concerti. Nel 2010, ero in Sudafrica per i Mondiali e rivelai in diretta la mia rabbia per il fatto che voi foste contemporaneamente in concerto a Roma; ti rendi conto dell’effetto che fate e che tu in particolare fai, sulle persone? «Ne sono consapevole e la cosa mi rende molto orgoglioso. E bellissimo portare certe sensazioni nella vita delle persone. Una quindicina di anni fa, ero in albergo a Mexico City, quando si avvicinò un uomo non più giovanissimo con tutta la famiglia, figli e nipoti. Mi disse che tutti loro vivevano per la mia musica. Ne fui scioccato perché compresi quanto la musica possa essere importante per le persone. Per alcuni può rappresentare anche l’inizio di una nuova vita. Dopo l’uscita di Brave molte ragazze ci confessarono di essere uscite da un brutto tunnel, proprio dopo aver ascoltato la storia raccontata nell’album (ndr l’album prende spunto da un reale fatto di cronaca: una ragazza che vagava in stato confusionale sul Severn Bridge a Londra). Capisci la potenza della musica? Tu dici che la nostra musica rappresenta alcuni capitoli della tua vita? Pensa a quanto siamo stati fortunati noi a far in modo che questo sia stato possibile! E l’anno prossimo saranno 40 anni, pazzesco! La musica è potere! Raggiunge la tua parte più intima e tocca corde che nessun’altra cosa riesce a sfiorare».
Sei convinto che sia ancora così? A me sembra che i giovani non seguano più la musica con lo stesso trasporto. «E’ cambiato tutto. Mio figlio di 21 anni fa sempre tante cose nello stesso momento. Chatta al cellulare mentre è seduto nella bow window, gioca online con gli amici ed ascolta musica. Sembra non possa fare meno di fare tre quattro cose alla volta. E la musica resta un sottofondo. Le nuove generazioni non sono educate al rispetto della musica, in particolare della musica dal vivo. Oggi il business guida la musica, trainato dal pop e da tutti questi Talent Show in cui viene fatto credere a dei ragazzini che saper cantare una canzone “classica” possa aprire loro una carriera. Questa non è musica. Oggi una giovane band può avere tante visualizzazioni su youtube o ascolti su Spotify ma da qui a diventare musicisti di professione beh… è un’altra cosa. Intanto un marchio che ha fatto la storia della musica (le chitarre elettriche Gibson) sta per chiudere. Triste, no?».
Triste, sì. Ma fortunatamente non è un mio problema. Io ho i Marillion, io ho Steve Rothery. E l’ho pure intervistato.